giovedì 17 agosto 2023

Il tempo tra ieri, oggi domani e oltre

Oggi ero in fila alla cassa del supermercato, davanti a me due ragazzi, dopo di me un arzillo signore anziano. I ragazzi parlavano ad alta voce:
< ...però a venè!>
<si, si… ci no è dumàne è dopedumàne>
<eh! … e ci no è dopedumane?...>
mentre i ragazzi si guardano il signore alle mie spalle esordisce con:
<...è piscrìdde!>
mi sono girata e ci siamo messi a ridere, io e lui, mentre gli altri ci guardavano neanche fossimo alieni che parlavano in sanscrito… ‘mmarallòre!
Si atteggiano a storpiare il dialetto traducendo dall’italiano “ dumàne… dopedumàne” , ignorando che il dialetto, quello vero, è molto più ricco perché i nostri avi sapevano dare il giusto valore al tempo, non andavano mai di fretta perché sapevano bene che per fare le cose ci vuole il tempo che ci vuole e che oltre domani e dopodomani viene pescrìdde e poi ...pescròdde e pescrùdde;
al passato le cose non cambiano e mentre la nostra memoria si limita a ieri e avantieri per i nostri avi esisteva anche diaterze.
La bellezza del dialetto è dovuta dal fatto che certe cose possono essere espresse solo in dialetto per ricchezza e precisione dei termini.
Rimanendo nell’ambito temporale esiste l’espressione:
“òsce a otte” usata sommariamente per indicare "la settimana prossima", invece non è proprio così, perché questa frase indica: lo stesso giorno di oggi della settimana prossima, se io oggi: giovedì dico che farò qualcosa òsce a otte vuol dire che la farò giovedì prossimo, non un giorno a caso della settimana prossima…
puntuale, chiaro, preciso e conciso!


 

giovedì 16 giugno 2022

Il bis


Continuano le avventure di Pasquale...

... se prendere un caffè al bar era un sogno, figuriamoci un pranzo a ristorante ma Pasquale aveva preso fiducia nelle sue finanze da contadino e decise di osare una serata mondana tra i peccati di gola e il fascino del grande schermo.
Arrivato a ristorante con la moglie Pasquale, appena si siede, perde la sua sua giovane sicumera quando si rende conto che sul tavolo c’è un menù per scegliere i piatti da ordinare ... ma lui non sa leggere! Così comincia a guardarsi intorno per cercare di vedere le pietanze servite agli altri tavoli ... ma non riesce a capire e incalzato dal cameriere mette il dito su un rigo del menù:
<prendiamo questo>
Dopo poco arrivano due piatti di insalata di patate. Maria scontenta gli fa:
< a Pascà e ame venute fine a qua pe continuà a mangià patàne lesse?>
< mangiàme ca po' pigghiàme nu bbelle seconde>

Intanto continuava a scrutare i tavoli vicini e proprio dal tavolo accanto al suo vede che soddisfatti chiamano il cameriere e chiedono ”il bis”, pensando che quello fosse il nome della pietanza che tanto avevano gradito, appena finite le patate anche lui chiama il cameriere e chiede: <”bis”>
subito arrivano al tavolo altri due piatti di insalata di patate.
Scontento e rassegnato Pasquale rincuora la moglie:
<Marì mangiàme e sciamene ca qua no è pe nuije>
<Sine Pascà, sciàmene a’u cineme ca è megghie>

Arrivano al cinema e mentre si avvicina alla biglietteria sente gridare dalla sala: <Bis! Bis!>
spaventato si gira verso la moglie:
<Marì pure qua patàne lesse sònde! Sciàmene ca no jè serate!>

martedì 14 giugno 2022

Nu sicchie a 'u cavadde!

Nella vita social l’immagine di una tazza di caffè è il “buongiorno” per tutti, nella vita reale ci si ritrova al bar con una tazza di caffè per cominciare la giornata.
Gesti semplici, abitudinari, ormai scontati, ma non è sempre stato così.

Negli anni ‘50, quelli del dopoguerra, tra gli espedienti di economia domestica, in casa si faceva ancora il “caffè di cicoria”, retaggio della guerra passata e quando, nei giorni di festa si faceva il “caffè di caffè”, la posa veniva fatta asciugare per poter poi essere riutilizzata.
Va da sé che prendere un caffè al bar era una chimera, un lusso riservato a “i signori”, un sogno da realizzare in un futuro migliore.
… e sognava pure Pasquale mentre lavorava nei campi. ..

Un giorno incontrò compare Nicola che racconta che ti racconto gli dice:
< cumbà Pascà ajere cu mugghiereme ame sciute a cettà e n’ame pigghiate nu bbelle cafè espresse a ‘u bbarre>
< e fatte bbuène Necò! Ogni ttande nge vole n’assute>

Sorrise al compare ma dentro di se, Pasquale provava una punta d’invidia che lo spinse a prendere una decisione: se lo aveva fatto compare Nicola poteva farcela anche lui, avrebbe messo i soldi da parte e avrebbe provato anche lui l’ebrezza del caffè espresso al bar!

Ogni settimana metteva da parte quello che poteva finché arrivò ad aver racimolato 5 mila lire e si disse: <Penze ca ‘bbastene pe’ ddo’ cafè...> e avvisò la moglie:
<Marì preparete ca ma scè a Tarde>

Acconciati di tutto punto sul loro scerabbàlle andarono in città, si fermarono al bar, ordinarono i loro caffè e per quanto soddisfatto Pasquale chiese timorosamente al cameriere
< Quant’è?>
< due caffè… 60 lire grazie>
Incredulo Pasquale richiese: < 60 lire?>
< Certo signore, 60 lire >
A quella conferma, rassicurato e orgoglioso di potersi permettere il caffè al bar, Pasquale esordì:
< NU SICCHIE A ‘U CAVADDE!>

giovedì 3 maggio 2018

Il Giovedì dei miracoli

Oggi è il quarantesimo giorno dopo la Pasqua, giorno in cui la nostra religione festeggia l'Ascensione e ricade sempre di govedì (anche se la chiesa lo festeggia la domenica successiva) e voglio ricordare una tradizione non tarantina che coinvolge molti tarantini.

Un giovedì speciale che, per tutti gli Orietani e per tutti i devoti di San Cosimo alla Macchia, viene detto " della Perdonanza" o  "dei miracoli".
Il pellegrinaggio nasce da una antica e radicata devozione verso i SS Medici e per questo Santuario di Oria, custode delle Loro Reliquie.  Una devozione che perdura ancora oggi e che nasce da un voto, da una promessa o come riconoscenza per grazia ricevuta.
Una volta il pellegrinaggio si faceva  su traini e scerabbàlle. Oggi i  pellegrini arrivano al Santuario già alle prime luci dell'alba, vengono da Oria, da Brindisi ma anche dalle province di Taranto e da Lecce e non solo in pullman o in macchina ma, oggi come ieri, soprattutto a piedi.

Dopo aver rinfrancato lo spirito col pellegrinaggio, l'ascolto della Messa, la visita di ringraziamento all'Altare dei Santi,   bisogna pensare anche  a rinfrancare il corpo, rifocillandosi all'ombra di un albero per poi rilassare la mente, girando per il mercatino dove acquistare qualcosa da portare a casa. 
Molte le cose da comprare: vummìli, capàse, ciàrle e zirùli;
i prodotti tipici  più venduti, sono sicuramente quelli mangerecci: 
  •  pupiddi alla scapece - pesciolini fritti e conditi con mollica di pane, aceto e zafferano;
  • mustazzuèli 'nnasprati - i mostaccioli - biscotti tipici, ricoperti da una glassa al cacao. 
Ma di una cosa non si può proprio fare a meno: le fettucce de Sante Coseme, dette anche: capisciòle o ziarèdde ...  
insomma, i tipici nastri colorati dei colori dei SS Medici: rosso, verde, giallo - da portare  in dono a parenti e amici a testimoniana del nostro pellegrinaggio ma anche perchè ritenute potente simbolo di protezione.








giovedì 26 aprile 2018

Cítte Tu! Ca Mamete cònde

Cítte Tu! Ca Mamete cònde.
 
Una frase che noi tarantini usiamo ancora oggi per zittire chi si intromette in discorsi che non lo riguardano ma che come per la maggior parte dei modi di dire, pochi ne conoscono l'origine.

 E' un detto che mi piace ricordardare oggi, 19 marzo, giorno in cui si commemora San Giuseppe, proprio perchè l'aneddoto nasce da un fatto realmente successo proprio nella Chiesa di San Giuseppe.
 

Una volta le nicchie dei Santi erano illuminate da lumini ad olio offerti e mantenuti accesi dai devoti che, facevano carico di rimboccare l'olio degli stoppini, gesto che, in tempi in cui l'olio veniva usato con grande parsimonia, comportava sacrifici e privazioni.

Si diceva che sulla tavola del sacrestano della chiesa di San Giuseppe l'olio non mancava mai.
Si racconta infatti che ogni sera,all'ora della chiusura, il sacrestano, passava davanti alla statua della Madonna col Bambinello e dopo essersi segnato col segno della croce Le chiedeva: 
Madonna mejie Te despiace ci me pigghie nu picche d'uegghie pe 'ccunzà a 'nzalàte?" 
Ovviamente la  Statua non proferiva il Suo dispiacere e lui procedeva a spegnere i lumini, provvedendo anche a svuotare l'olio degli stoppini.
Il parroco, insospettito dal consumo anomalo dell'olio, una sera si nascose e scoprí la manovra del sacrestano.
La sera successiva il parroco si appostò nuovamente  e quando il sacrestano fece la solita domanda alla Madonna, contraffacendo la voce rispose:

"No, non puoi!"
Il sacrestano rimase sorpreso ma, dopo lo stupore iniziale, rivolgendosi  al Bambinello  rispose: "Cítte Tu! Mamete cònde".
A questa risposta il parroco si rivelò scoppiando in una fragorosa risata.
























 

giovedì 8 marzo 2018

Fiorenzo e Ardelia

Quella che voglio raccontare è una storia d'amore pubblicata sulla "Rassegna Pugliese - di scienze, lettere ed arti"- di luglio 1884,  intitolata "Ardelia - cronaca tarantina del 1301"  a firma dell'avvocato e scrittore tarantino Alessandro Criscuolo (1850 - 1938).
E' una storia non verificata, in cui anche il nome del principe viene volutamente omesso dall'autore, proprio la sua distanza dalla realtà storica la rende avvincente come solo una favola può essere.
Questa favola affascinò anche il grande compositore tarantino Emilio Consiglio che ne fece una lirica contenente "i canti di Fiorenzo e Ardelia", serenate che fanno da sfondo a questa incredibile storia d'amore ambientata a Taranto.

FIORENZO E ARDELIA
Fiorenzo Altieri era un ardimentoso giovane di gallipoli che entrato come paggio alla corte del Principe di Taranto, ne divenne poi abile scudiero col compito di occuparsi del cavallo della figlia del Principe, la bella Ardelia.
Il Marchese di Castellaneta invitò il Principe alla consueta partita annuale di caccia al falcone.
Il corteo del Principe si mosse all'alba, giunti nei pressi della gravina il cavallo della principessa Ardelia sull'orlo di un precipizio, si spaventò, l'ardimentoso Fiorenzo fronteggiò il cavallo per evitare il peggio ma il cavallo disarcionò la principessa che cadde a terra in fin di vita.
Le assidue cure dello speziale di corte e le visite giornaliere di Fiorenzo che le faceva compagnia leggendole libri e cronache di gesta eroiche di cavalieri in difesa dell'onestà delle loro donne, fecero guarire Ardelia che, innamoratasi del suo scudiero, chiese al padre di acconsentire che Fiorenzo la raggiungesse tutte le sere per continuare a leggerle quei racconti.
Un giorno a corte giunse la voce che, in terra di Bari, uno spagnolo aveva sostenuto che la madre di Ardelia avesse tradito il principe suo marito, e Ardelia ne pianse tanto che Fiorenzo, per calmarla, le pro­mise che avrebbe lui stesso sfidato a duello lo spagnolo.
Tanto disse e così fece, Fiorenzo sfidò lo spagnolo e dopo pochi colpi riuscì a sopraffarlo, puntò la sua spada sul petto dello spagnolo e gli fece giurare che la moglie del Principe era tra le più oneste del Principato di Taranto.
Riscattato l'onore del principe e della sua consorte, Fiorenzo ottenne l'amore eterno della principessa Ardelia e ogni sera, mentre tutti dormivano la raggiungeva e passavano insieme la notte ma...
"tosse et amorem nascudire non potest"...
Durante una notte tempestosa, una guardia fu svegliata da un rumore e intravide la sagoma di un uomo entrare nelle stanze dalla principessa, bussò minacciosamente, intimando di aprire. Ardelia era tremante, Fiorenzo, ricordandosi di una antica leggenda di fantasmi che si aggiravano per il castello nelle notti di pioggia, si coprì con un lenzuolo e, quando la guardia entrò gridando:
chi è là? -
senza perdersi d'animo rispose:
lo spirito del duca Randello! -
il soldato, tremante, si fece tre volte il segno della croce e scappò.
Il giorno dopo il Principe, aggiornato dell'accaduto, non credendo ai fantasmi e sentito il parere di Fulgardo, giureconsulto di corte, condannò Fiorenzo all'esilio, e alla pena di morte qualora lo avesse violato avvicinandosi al castello.
Fiorenzo ritornò nella sua Gallipoli ma non si arrese alla minaccia di morte e, con la complicità della sua ancella, appena poteva, travestito da mercante, contadino o frate, di notte raggiungeva la sua amata Ardelia nelle sue stanze.
Una notte la banda di Irpino Ajello, approfittando dell'assenza del Principe, saccheggiò e incendiò il castello. Fiorenzo cercò di intervenire ma fu legato e rinchiuso nel sotterraneo.
Il castello fu semi distrutto dalle fiamme e le guardie, per salvarsi, raccontarono al Principe di aver catturato il colpevole e di averlo rinchiuso nelle segrete.
Riunita la Corte, il Principe, condannò a morte Fiorenzo e alla clausura, nel Monastero di Santa Chiara, la figlia Ardelia.
Dopo circa un mese, una mattina all'alba Ardelia fu svegliata da uno strano rumore nella piazza sottostante, insospettita, si arrampicò ai ferri della grata e vide il suo Fiorenzo salire sul patibolo - un dolore immenso le tolse le forze e cadde a terra priva di sensi.
Ardelia non si riprese più da quel dolore e dopo sei mesi morì dopo aver chiesto, alle suore che l'avevano assistita, di essere seppellita con il suo amato.
Le suore rispettarono le ultime volontà di Ardelia e, in una notte di plenilunio, la seppellirono nella fossa dove giaceva Fiorenzo.
Sulla fossa nacque una pianta dalla quale ogni primavera spuntavano due fiori bellissimi che si intrecciavano e rimanevano uniti fino all'inverno, quando appassivano per rinascere in primavera.


Poi il 23 giugno 2016, durante lavori dell'acquedotto pugliese ritrovano una tomba con due scheletri abbracciati, " gli amanti di Taranto", pare risalenti a 2000 anni fa...
ma ... se fossero Fiorenzo e Ardelia?


giovedì 15 febbraio 2018

Tre sorelle

Quella che vado a raccontare è la storia di una famiglia, padre, madre e tre sorelle in età da marito. 
Erano buone, brave e belle ragazze ma tutte e tre avevano evidenti difetti di pronuncia.
I genitori, preoccupati per il loro futuro, si prodigavano per cercare giovani pretendenti.
Una domenica mattina il padre annunciò che in mattinata si sarebbe presentato un giovane per parlare lui. 
La madre preoccupata del difetto delle figlie, in quella circostanza, si raccomandò loro di rimanere in rigoroso e prudente silenzio.
Il giovane si presentò quasi a mezzogiorno, e la donna aveva già acceso il fuoco sotto la caldaia.
Il giovane parlava con il padre delle ragazze, la madre si preoccupava di offrire loro del rosolio e le tre sorelle intorno al tavolo, in rigoroso silenzio, si fingevano in altre faccende affaccendate quando si accorsero che l'acqua della caldaia cominciava a bollire.
Emozionate dall'ospite e distratte da quel momento di confusione le  sorelle parlarono. Cominciò la più piccola: < fè fè a catà! >
la seconda rispose: < mè mè maccaù! >
e la più grande le rimproverò: < tè tè facìme! 'a mamme n'ha dditte de no faveddà e nu faveddàme? >

Facile dedurre che a questo punto il guaio era fatto e nell'imbarazzo generale il giovane pretendente salutò educatamente e non si fece rivedere mai più.