giovedì 24 luglio 2014

"A sènza nàse"



Il nostro dialetto è molto ricco di detti, modi di dire, aforismi, metafore che aiutano a parlare di tutto senza essere espliciti. Uno degli argomenti più esorcizzati è sicuramente la morte, chiamata con la definizione di  “ a’ sènza nàse” (la senza naso), perchè i teschi sono senza naso, ma anche perchè un nostro detto recita "cì tène nàse tène criànza"  e la morte non ha educazione e pietà per nessuno.

Ci sono diversi eufemismi che permettono di informare del decesso di qualcuno, girando intorno all’argomento con espressioni, talvolta ironiche, che ci ricordano la caducità della vita.

Accogghiere le fièrre

Letteralmente vuol dire “raccogliere i ferri” – di chiara derivazione artigiana. A fine lavoro e a fine giornata gli artigiani usavano raccogliere i loro arnesi di lavoro – le fièrre –
Similmente alla frase precedente se paragoniamo la vita alla giornata di lavoro, la morte equivale a “accogghiere le fierre”, la fine del lavoro e la fine della vita.


Azzuppàre ‘u sìcchie

Letteralmente significa “ battere il secchio ”,  e che il dr. G. Campobasso dice derivi dalla usanza di attingere l’acqua dal pozzo. Per questa operazione si usava un secchio legato ad una fune scorrevole, quando il secchio toccava sul fondo del pozzo – “azzuppàva (sbatteva) - non consentiva più lo scorrimento della corda che si fermava.
Paragonando la vita allo scorrere del secchio, la morte equivale alla " battuta ", la fine della corsa e la fine della vita.

Stènnere le piète

Letteralmente "stendere i piedi"

Riggitàre le jàmme

Letteralmente "riposare le gambe" 

Ha sciùte a uardà l’alie de Nitti

Letteralmente significa “è andato a vedere gli ulivi di Nitti”. La famiglia Nitti a Taranto era nota anche per le vaste proprietà terriere che possedeva, una di queste era la masseria San Brunone che si estendeva per un vasto territorio ricco di uliveti. In seguito questa masseria fu donata al Comune e fu adibita a cimitero, denominato appunto San Brunone.
Dire quindi che qualcuno “ ha sciùte a uardà l’alie de Nitti” è uno dei tanti modi per dire che è morto.

Ha sciùte all’arvule pizzùte

Letteralmente vuol dire “ è andato agli alberi appuntiti ”  che per antonomasia sono i cipressi, tradizionalmente gli alberi dei cimiteri.
Quindi “scè all’arvule pizzùte” vuol dire morire.

mercoledì 16 luglio 2014

"Òsce è 'u Sànde mije, tire le recchie a cì vògghie ije"



Frase tipica da dire, a cantilena,  il giorno dell’onomastico quando al festeggiato è concesso tirare le orecchie ad amici e parenti.
Chissà quante volte l’abbiamo detta e/o sentita senza capirne il senso…
… in effetti la spiegazione è semplice…
una volta si credeva che la memoria risiedesse nelle orecchie e si pensava che tirandole venisse risvegliata.
Quindi il gesto serve a ricordare la ricorrenza a coloro che l’ hanno dimenticata!

Mentre per l'onomastico, è il festeggiato a tirare le orecchie a parenti e amici, il giorno del compleanno sono parenti e amici a tirare le orecchie al festeggiato...

Tirare le orecchie a chi compie gli anni, è benaugurante perchè, invecchiando il naso e le orecchie si allungano. L'orecchio lungo diventa sinonimo di anzianità e quindi di maturità e sapienza. Questo gesto diventa quindi un modo di propiziare longevità e saggezza.

Si crede anche che i lobi siano collegati al cuore - sede della vita e dell' anima  (Esculapio docet) - per cui,  tirare i lobi simboleggiava, con atto di magia simpatetica, allungare la vita.... 

Insomma, una tirata d'orecchie non fa mai male!


sabato 12 luglio 2014

L'ha candàte 'a graste

 

 Chissà quante volte abbiamo sentito dire "L'ha candàte 'a graste"  riguardo a persone che usano dire la propria opinione a voce alta e senza mezzi termini.

L'origine di questo detto è in Grecia, a Sicione,  nel VI secolo A.C. quando il dittatore Clistene emana l'ostracismo, un provvedimento che consisteva nell' allontanare dalla città, per un periodo variabile da cinque a dieci anni, chi si macchiava  di reati politici. L'accusato veniva giudicato dall'assemblea del popoloi cui membri esprimevano la propria volontà, incidendo il verdetto su di un pezzo di un coccio chiamato (ὄστρακον) ostrakon, che veniva messo in una (γάστρα) gastra, vaso panciuto di terracotta usato anche per il bucato o come vaso per i fiori. 
Lo scrutatore poi pescava i cocci da questo vaso e leggeva a voce alta il nome che vi era inciso.

Questo modo plateale di declamare il nome del reo e il reato commesso, ha fatto nascere il detto CANTARE ‘A GRASTE, intendendo per esso, l’azione di esprimere le proprie idee.


Oltre la spiegazione storico-etimologica questo antico modo di dire ha anche un'origine popolana...

Si racconta che tanto tempo fa c'era una vecchietta, che ogni mattina, davanti alla chiesa di Sant'Agostino, chiedeva l'elemosina che raccoglieva in un vaso rotto che portava sempre con se.
Un giorno passò il sindaco di Taranto e le lanciò un involucro. La vecchietta pensò ad una grossa elargizione. Ma si accorse che il sindaco aveva voluto farle uno scherzo e dentro non vi era altro che carta straccia.
Delusa e arrabbiata per l'affronto subito, andò sotto casa del sindaco e gliene gridò di tutti i colori senza alcun timore reverenziale, agitando la "grasta scuasciàta" in cui tintinnava la sua questua giornaliera.
Il suono di quelle monetine faceva appunto "cantare" la grasta, dando anche un sottofondo agli improperi che la vecchietta urlava al sindaco.
 
Da allora, il termine viene fatto riferire a chi parla senza diplomazia.