domenica 26 aprile 2015

“Ggese Criste mije, fa sta bbuen’u Rreje”






Durante il regno delle due Sicilie, Re Ferdinando II di Borbone, regnava con le “ Tre  Effe “ : Festa, Farina, Forca – termine da lui stesso coniato per sintetizzare la sua politica di governo, secondo cui per governare  un popolo  ci volevano tre cose: 
le feste, per tenerlo in allegria – la farina, per sfamarlo – la forca, per punirlo quando sbagliava.



A Taranto erano tempi grami, ma nonostante si facesse la fame, una vecchietta usava sempre ripetere: < Ggese Criste mije, fa sta bbuen’u Rreje > 
sconcertando tutti quelli che avevano l’occasione di incontrarla e ascoltarla.

La notizia giunse fino al Re, che volle conoscerla, per sapere il motivo della sua benevolenza.

Portata davanti al Re senza timore la vecchietta disse:
“ hagghie canusciute ‘u nonne tuje, c’ha state nu’ disgrazziàte, poje ha venute ttanete c’ha state chiù desgrazziàte de nonnete, mo’ è arrevàte tuje ca si chiù desgrazziàte de ttanete e de nonnete… cu digghia campà cijnt’anne, ca securamende figghiete addevende cchiù desgrazziàte de tèje, de ttanete e de nonnete!”


giovedì 23 aprile 2015

u’ muerse d’u panarijdde

Si dice che “la verità la dicono i vecchi, gli stolti e i bambini” -  ed è di bambini che vi parlo oggi, spiegandovi un modo di dire: “u’ muerse d’u panarijdde”,  usato per indicare una persona che, senza remore e limite alcuno, riesce a criticare e canzonare tutti, proprio come i ragazzi di strada, birbanti, monelli e irriverenti, detti appunto: “panarijdde” - ma perché proprio questo termine? 

Molti ritengono che risalga agli inizi del secolo scorso, quando i giornali venivano venduti per strada dagli “strilloni” che ne gridavano la notizia principale della prima pagina.
A Taranto, Vincenzo Leggieri, nel 1902 fondò un giornale locale “U’ panarijdde” – gli strilloni che lo vendevano erano ragazzini, coi calzoni corti e le scarpe rotte: “ le uagnune d’u Panarijdde” o più brevemente “ u’ panarijdde”.

Ma il suddetto giornale in testata spiegava: “je quidde piccinne ca no lasse de pede a nisciune” (è quel bambino che non perde l’occasione per inseguire nessuno) e fu intitolato “ ‘U Panarijdde” proprio perché era un giornale satirico di politica, usi, costumi e personaggi locali.

Facile quindi dedurre che il termine sia molto più antico, infatti viene associato ad un “modo di fare” non più frequente ma che si può ancora vedere: il cesto, legato ad una corda, calato dal balcone.

Quel cesto, in dialetto,  viene chiamato appunto panarijdde.

Quando i venditori ambulanti passavano per i vicoli, le donne s’affacciavano al balcone, calavano una corda a cui era legato un cesto e gridavano:“ ‘u panarijdde!” – per avvisare i passanti, ma soprattutto i ragazzini, che passavano le giornate giocando nei vicoli e che a quel grido accorrevano numerosi. Quello che  per primo prendeva ‘u panarijdde  chiedeva alla proprietaria: “Cumanne signò” -  per farsi dire dalla signora cosa doveva comprare -  poi eseguita la commissione, riportava ‘u panarijedde con la spesa e riceveva una mancia,  ossia " s’abbuscave a mazzètte " , in natura o in denaro. 
I ragazzi di strada presero così ad essere definiti "le uagnune d’u panarijdde" o più semplicemente "le panarijdde".

martedì 21 aprile 2015

Mò se ne vène cu' ste vàsce caitàne


E’ un modo di dire che nella nostra città si usa quando si vuole intendere di quelle persone che, con persuasione e sotterfugi, cercano di far cambiare opinione ad altri, per ottenere ciò che vogliono.

Il termine "vàsce" in questo caso, non significa "basso" ma, in un'accezione obsoleta ormai in disuso, indicava "sotterfugio, raggiro".

Questo modo di dire nasce in seguito alla venuta a Taranto del cardinale Bonifacio Caetani .

Nominato arcivescovo di Taranto - il 22 aprile 1613 - con fare diplomatico e vari sotterfugi, riuscì a modificare il numero dei canonici della diocesi Metropolitana, senza suscitare scandali e polemiche.
 

lunedì 20 aprile 2015

Vò' pagghie pe' ciènte cavàdde

 
Questo modo di dire in genere viene usato per sottolineare l’eccessiva pretesa nell’esigere di essere soddisfatti.
 
Pare che questo modo di dire sia da ricondurre all’epoca dell’occupazione Francese a Taranto nel 1809.
I soldati francesi erano soliti fare delle requisizion
i per soddisfare i vari bisogni di vettovagliamento dell’esercito. Con impeto e prepotenza esigevano ogni cosa immediatamente, anche dai cittadini più umili.
Dai contadini di solito pretendevano il foraggio sufficiente per alimentare i cavalli di tutta la compagnia (formata da 100 – 120 soldati) , quindi “volevano paglia per cento cavalli”.

Furia francèse e reteràta spagnòle

Furia francese e ritirata spagnola - è un detto che si usa in genere per indicare chi inizia qualcosa con slancio e tanta volontà, ma poi non la porta a compimento.
 
Evidentemente si allude alla furiosa invasione fatta nelle Puglie, e quindi anche a Taranto dai Francesi, ai tempi di Carlo VIII nel 1495. 

L’invasione portò ovunque scompiglio e sbandamento, ma soprattutto nelle truppe spagnole degli 
Aragonesi , che per questo motivo, senza opporre resistenza decisero di ritirarsi.

sabato 18 aprile 2015

Arrevò Pirre e spicciò 'a pacchie

Questa espressione viene usata quando, per l'arrivo di una nuova persona, si perdono i privilegi acquisiti e si riferisce ad una antichissima vicenda storica della Taranto Magnogreca.

 Nel 281 a.C. la città di Taranto, in Magna Grecia entrò in conflitto con Roma, e stava preparandosi a un attacco romano che le avrebbe inferto una sicura sconfitta. Roma era già diventata una potenza egemone, e si muoveva con l'intenzione di sottomettere tutte le città greche dell'Italia meridionale.
I tarantini, che non erano abituati alle guerre,  mandarono una delegazione a Pirro, re dell’Epiro, perché intervenisse e li aiutasse a salvare la loro città dalla conquista romana.
Pirro, già desideroso di vittorie ci vide anche l’occasione di fondare senza sforzi un regno in Italia, nonché quella di conquistare la Sicilia ed espandersi in Africa Incoraggiato nell'impresa dalle predizioni dell’oracolo di Delfi, nonché dall'aiuto del re di Macedonia Tolomeo Cerauno, il più forte dei suoi vicini, Pirro decise di intervenire a favore dei tarantini.
La guerra durò dal 280 al 272 a.C. quando Pirro ormai sfinito fu costretto a capitolare.

Taranto era una città molto ricca ma gli anni di guerra furono molto difficili per i tarantini. Pirro, per mantenere i propri soldati, aumentò le tasse costringendo i tarantini a condizioni di vita molto dure, tanto da lasciare viva fino ad oggi l'espressione: « Arrevò Pirre  e spicciò ‘a  pacchia »

venerdì 17 aprile 2015

U' muerse d'u felone


Quando qualcuno compie un gesto irriverente,  maleducato e sconsiderato, viene apostrofato come 
“ u muerse d’u felone ”
Nel dialetto locale “u felone” è  un tipo di panino dalla forma allungata,  ma questo modo di dire non ha nulla a che fare col cibo…

Taranto nel III secolo a.C. era capitale delle città costruite dai Greci. 
I romani, vollero fare un accordo con i tarantini affinchè, questi, non aiutassero i nemici di Roma. 
Gli stessi romani, però, infransero l’accordo. I tarantini, quindi assaltarono le navi romane affondandole. Alcune navi, sfuggite alla furia dei tarantini, riuscirono a tornare indietro e avvisarono Roma dell’attacco e delle perdite subite. Dopo poco arrivò, nella nostra città, l'ambasceria romana, guidata da Lucio Postumio, chiedendo un risarcimento per i danni subiti.
La pubblica assemblea dei tarantini, rispose in modo triviale e offensivo alle richieste dei romani, al punto che un soldato tarantino, un certo Filonide, presumibilmente ubriaco, reagì con un gesto clamoroso: si alzò e orinò addosso all’ambasciatore romano il quale dichiarò che ci sarebbe voluto molto sangue tarantino per lavare quell’onta, ma altri tarantini, forti del gesto compiuto da Filonide, presero l’ambasciatore e lo riportarono al porto, cacciandolo. 
Pochi giorni dopo Roma dichiarò guerra a Taranto …  che chiese aiuto a Pirro …..

giovedì 16 aprile 2015

Vijste cippòne ca' pare Baròne

Questo modo di dire viene usato quando si vuole intendere un mascheramento, un trucco, la finzione di chi vuole apparire quel che non è ...  perchè a Taranto "l'abito fa il monaco" ...

Si racconta che ... durante la festa patronale, un barone, abitante nei pressi della Cattedrale, aveva l'usanza di testimoniare la propria devozione a San Cataldo riunendo nel suo palazzo tutta la sua nobile famiglia e la servitù, per essere presenti sul balcone in pompa magna al passaggio del simulacro. 
Un anno una forte bronchite tenne il barone febbricitante a letto. I parenti tutti, non sapevano come fare per rispettare la consuetudine. Una scaltra servetta, propose di tagliare un tronco d'albero e di rivestirlo degli abiti del padrone. Così fu fatto e, complice l'oscurità della sera, nessuno della processione si accorse del travestimento.

martedì 14 aprile 2015

U' uadàgne de Maria Prène



Letteralmente "il guadagno di Maria di Brienne", un modo di dire con il quale, nel dialetto tarantino, ancora oggi si commenta scherzosamente un cattivo affare.
E’ un modo di dire antichissimo e sta ad indicare chi, agisce credendo di ricavarne un vantaggio, procurandosi,  involontariamente, un danno. 







Questo detto allude alla triste sorte di Maria D’Enghien contessa di Brienne  che nel 1384 a soli 17 anni sposò il barone Raimondello del Balzo Orsini, Principe di Taranto.
Nel 1406, alla prematura morte del principe Raimondo, Ladislao I D’Angiò, re di Napoli con le sue truppe assediò Taranto.  Maria guidò la resistenza della città ad oltranza. L’esercito di Ladislao riportò grandi perdite, tanto da indurlo a risolvere la questione diplomaticamente proponendo a Maria D’Enghien  di sposarlo.
La principessa trovò molto allettante la prospettiva di diventare Regina, tanto che a chi la invitava a riflettere su un amore che appariva troppo interessato rispondeva: “No me ne curo chè se moro, moro regina”

Il 23 Aprile 1408  nella cappella del Castello Aragonese, Maria D’Enghien sposò Ladislao I D’Angiò che coronò così il suo sogno di impossessarsi del Principato di Taranto .
Maria a Napoli fu accolta favorevolmente dal popolo, ma non a corte, dove visse quasi segregata e costretta a condividere la sua esistenza con le amanti del marito.  
Alla morte di Ladislao, nel 1414 il regno passò alla sorella Giovanna II, che la fece addirittura imprigionare.

Questo il guadagno fatto dalla povera Maria con quel matrimonio, guadagno che rimase tristemente proverbiale a Taranto e a Napoli come  U’ uadàgne de Maria Prène

Comunque nel 1415 fu liberata e ritornò a Lecce dove si riappropriò della contea e nel 1420 ottenne anche il Principato di Taranto.

lunedì 13 aprile 2015

" Hame pèrse Filìppe cu' tutt'u panàre"


Questo modo di dire risale al principato di Filippo I d'Angiò (4 feb 1294 - 1331), il quale, a differenza dei suoi predecessori, fu molto attento ai problemi sociali e alle necessità del popolo che viveva in estrema povertà. 
A tal proposito istituì un paniere con alimenti di prima necessità che veniva consegnato loro mensilmente. Ogni mese i cittadini poveri facevano la fila davanti al Castello per ottenere quel minimo vitale per la sopravvivenza, ringraziando e apprezzando la bontà del nuovo principe.

Il 23 dicembre 1332  il Principe Filippo morì e il suo successore stabilì fin da subito di non voler continuare questa beneficenza. 
Il popolo si ritrovò così a piangere il defunto Principe e a rimpiangere il suo paniere dicendo:
 "hame perse Filippe cu tutt'u panare"  
frase che tutt'oggi pronunciamo ogni qualvolta perdiamo qualcosa di importante.

A conferma di quanto detto, il comune di Martina Franca ha voluto onorare il suo fondatore con una lapide