mercoledì 29 giugno 2016

Pietr'aùre

Oggi è San Pietro e Paolo e per questa ricorrenza vi voglio parlare di Palazzo Galeota.


I palazzi nobiliari del borgo antico custodiscono tanta storia ma anche tante storie, fatti veri o inventati comunque degni di essere raccontati. 

Vi chiederete cosa ha a che fare questo palazzo nobiliare con San Pietro, col Santo niente,  col "Pietro"  qualcosa c'è...

La storia ci dice che Palazzo Galeota,  prende il nome degli ultimi proprietari ma  fu costruito nel 1728 per volontà del canonico Don Vincenzo Cosa, uomo scaltro che mediante la gestione dei lasciti testamentari al capitolo metropolitano, e la considerevole attività creditizia esercitata, seppe accumulare le somme necessarie per esaudire il suo desiderio di annoverare la sua famiglia tra quelle della nobiltà tarantina.
 
A suggellare il prestigio raggiunto col potere economico,il canonico si prodigò a combinare il matrimonio del fratello don Domenico Cosa, con la nobildonna napoletana donna Rosa de Cordova.
Alla morte di Don Vincenzo e del fratello Domenico, il palazzo passò alla famiglia Calò  e in seguito alla famiglia Galeota, da cui ha preso il nome. 

La leggenda vuole che il fantasma di un monaco si aggiri per le stanze del palazzo, alcuni pensano si tratti presumibilmente di Don Vincenzo, alri invece dicono si tratti di "l'aùre de case", ossia del monacello, il folletto della casa.
A questo " folletto" i tarantini hanno dato una storia... e un nome ... 


 Pietr'aùre

... a Palazzo Galeota viveva una giovane coppia, lei una bella ragazza, lui un bell'uomo, onesto, lavoratore che faceva il fornaio.
Vicino al Palazzo viveva Pietro, un bel ragazzo che si era invaghito della moglie del fornaio e non esitava a corteggiarla. Il corteggiamento fu così serrato, che la giovane sposina cedette e nottetempo, quando il marito era dedito al suo lavoro di fornaio, aprì la porta di casa al focoso Pietro. I loro incontri erano tanto appassionati da lasciare lividi e rossori sul corpo della giovane.
Quando il marito, tornato a casa, chiedeva alla moglie cosa fossero quei segni, lei rispondeva "ha state l'aùre!"
La gente che vedeva e sapeva, ascoltando una simile risposta, commentava: " Si, Pietr'aùre!"  


Da questa storia è nato il detto:
" Pizzeche d'aùre
  pigghiete paure,
 pizzeche de zite
                                                 pigghie marite "

  

domenica 19 giugno 2016

" E và bbène " ...disse Donna Lena

Un modo di dire recita:
" e vabbène disse donna Lena, quanne vedì 'a figghie, 'a serva e 'a jatta prène " 
un detto che sottolinea la necessità, a volte, di arrendersi all'evidenza e accettare le cose per quelle che sono.
Come fece Donna Lena che, aveva una figlia in età da marito e, in attesa che arrivasse un pretendente alla sua altezza, preoccupata per il suo onore, la faceva uscire sempre in compagnia della donna che aveva a servizio.
Un giorno però, entrando all'improvviso nella stanza della figlia, notò che "aveva messo sù pancia",



allora infuriata andò nella stanza della donna di servizio per chiedere spiegazioni e si accorse che anche lei aveva "il pancione".
Sconvolta, Donna Lena cominciò ad inveire contro la figlia e la serva quando,
la gatta di casa le si avvicinò miagolando, cercando una cuccia per partorire....



A quel punto Donna Lena si ammutolì e, rassegnata, si lasciò cadere su una sedia esclamando: " e và bbène!"...
















venerdì 10 giugno 2016

Donna Pernice.

Berenice era una nobildonna di origini napoletane, sposata con Cataldo Simonetti, piccolo borghese tarantino titolare di una gioielleria. Vivevano agiatamente col loro figlioletto Domenico, detto Mimì - soprannominato "brasciolette" che non privavano di vizi e sfizi, ma dopo una rapina che svaligiò il loro negozio caddero in miseria e la loro vita cambiò drasticamente.
Donna Berenice non si perse d’animo e avendo studiato canto, andò a cantare in chiesa accompagnata al pianoforte dal figlio Mimì che aveva preso lezioni di pianoforte.
I nobili parenti napoletani l'aiutavano come potevano, inviando anche i loro vestiti dismessi, ma lei, Donna Pernice, com’era chiamata dai tarantini che per inflessione dialettale storpiavano il suo nome, li indossava senza soggezione, benchè fuori moda e fuori luogo, e a chi la guardava con disprezzo rispondeva: 

< abbete mije pumpuse, quidde ca me donne me mette suse.>
 

Una donna rimasta impressa ai tarantini che ancora oggi vedendo una persona vestita in modo stravagante usano dire: 
"S’ha vestute come donna Pernice!" 

A suo marito invece avevano dedicato una cantilena:
"Don Catavete Simonette,
pe mugghiere 'na catalette,
pe figghie na brasciolette!" 
Donna Berenice col marito Cataldo Simonetti (a destra) e il figlio Domenico (a sinistra)