martedì 12 dicembre 2017

Santa Lucia

Oggi si festeggia Santa Lucia, invocata a protezione della vista. 
Il culto di questa Santa era molto sentito, tanto che il popolo ha tradotto in dialetto e messo in versi la sua storia per poterla tramandare.
Una storia da secoli tramandata  da madre in figlia che ora finisce in un blog  e viaggia per il mondo virtuale.
Come tutte le cose della tradizione orale, anche questa storia col tempo avrà perso dei pezzi, altri se ne saranno aggiunti.  Ogni paese e ogni famiglia racconta la propria. 
Riporto la versione recitata in quel di Leporano, giunta a me da mia madre che l'ha imparata da mia nonna che, a sua volta, l'aveva sentita dalla bisnonna...

Accuminzàmu ringraziannu Ddiu
e lu nomi ti la Santissima Trinità:
‘Nci stava na figliola vacantìa
la ttàne la vuleva marità.

“ A te Lucia dagghi ta mmazzare
ci no faci ce ti dicu iu senza fiatàre!”
La puvirèdda tantu si ‘mpaurìu
ca fore ti la cittade si ni scìu.

Allu desertu la cundanna avìu, 
acqua, vientu e sole la risuscitava 
lu Re di la Billonia la vidìu
e sulu di l’uecchi si ni ‘nnammurava.

“Dàtimi nu sottatazza, Ssignurìa,
mi cecu li uecchi e 'nci li donarìa”.
Lu Re di la Billonia si ni scìu
Lucia senza uecchi rimanìu.

A 'nsuènnu Cristu la feci calmare:
" durmi Lucia e non ti ni atterrire".
Quannu s’azò ti lu liettu la matina
s'acchiò cu l’uecchi chiù belli di prima.

"Qua 'nnanti na chiesiòdda m’agghia fare
cu tre altari e do’ porti maggiori
cu tre altari e do’ porti maggiori
ogni culonna m’agghia ‘ddà stampare.

Dda ònna vinè da tutti li lueghi,
a ta vinè la gente ti longa strata.
A ta vinè la gente ti longa strata
dda ònna 'cchiari la vista li ciechi.

domenica 3 settembre 2017

A mmenzadije ci sté a ccáse d'otre, cu pigghie vije!

Un vecchio detto che tutti abbiamo sentito e usato ignorandone l'origine, tramanda una regola di buona creanza, una volta impartita con l'esempio e con l'ausilio di cunti...

... Stàvene na vota
" Sisina e Vitodda, due comari  e vicine di casa, situazioni che una volta accomunavano più della parentela.
Sisina spesso e volentieri, ossia ogni santo giorno, appena sentiva gli odori della cucina di Vitodda, si affrettava a farle visita, e non se ne tornava mai a mani vuote, perchè Vitodda divideva tutto con lei: pane, frutta, pesce, cozze, .... qualsiasi cosa. 
Piccole cose è vero, ma che, in una gestione domestica che spesso si manteneva sul sacrificio e spesso sulla Provvidenza, avevano il loro peso.
A lungo andare la situazione divenne insostenibile per Vitodda, che non si sentiva più di dividere con Sisina quello che non bastava neanche per la sua famiglia, ma non voleva neanche fare un torto ad una comare e perdere quell'amicizia.
Un giorno Vitodda preparò una focaccia e proprio appena
tornata dal forno, sentì bussare alla porta. Lei sapeva che era comare Sisina, puntuale come sempre, ma stavolta non se la sentiva di dividere con lei il suo pranzo e la sua cena. 

Per la fretta mise la teglia sulla sedia, la coprì con uno strofinaccio e andò ad aprire alla comare.
La fece accomodare e si affrettò a sedersi sulla sedia dove aveva "nascosto" la focaccia.
Cominciarono a parlare come al solito mentre Vitodda cercava di nascondere la sofferenza per essere seduta sulla teglia bollente. Provava a comportarsi come sempre, mentre si sentiva il viso (... e non solo) in fiamme quando sentì i rintocchi dell'orologio che annunciavano mezzogiorno e senza aspettare oltre (anche perchè non ce la faceva più) esclamò: 
< Stè sona mmenzadije! ...ci sté a ccáse d'otre, cu pigghie vije... >
Sisina capì che la comare la stava invitando a tornarsene a casa, e questa volta a mani vuote. Risentita, immediatamente si alzò e salutò Vitodda dicendo:
< ...ije me ne vòche e no' me ne cure ma a tte 'a pizze t'a ascuàte 'u cule! > 

Non sappiamo se Sisina, capita l'antifona continuò a frequentare la vicina senza approfittare della sua generosità, e se l'ustione di Vitodda lasciò cicatrici. 
Certo è che  adesso ne sappiamo una in più!


venerdì 11 agosto 2017

L’uève d'u Cuménde de Sánda Chiáre.

Oggi si festeggia Santa Chiara, ricordata a Taranto per un Convento, famoso per le sue uova, nominate quando qualcuno cerca di ottenere il massimo (o l'impossibile) col minimo sforzo, con questo detto:
“ vè ‘cchiánne l’uève dù cuménde de sánda Chiáre: frische, gruésse e mmarcáte!"

Questo perchè le suore allevavano le galline  rivendendo le uova a prezzo molto basso, lo stretto necessario alla loro sussistenza, come imponevano i loro voti.

Il Convento fu costruito per volontà di Raffaele Pesce, medico dell'Ospedale della SS. Trinità, di Via Duomo, il quale lasciò  tutti i suoi averi al Capitolo metropolitano affinchè costruisse un monastero di  "clarisse" che avrebbero dovuto accogliere le monacande senza distinzione di classe sociale.
Alla sua morte, il lascito si rivelò insufficiente per l'ambizioso progetto, per cui il clero decise di vendere anche la casa del medico, di via Pentite, e decise di costruire il convento vicino alla Cattedrale, dove sorgeva l'antica Chiesetta di S. Rocco
Il convento fu terminato nel 1621 e fu sede della Clarisse fino al 1896, quando divenne sede  della suore Figlie di S. Anna che ne fecero asilo e scuola di cucito fino al 1975. Nel 1978 il Convento venne abbandonato, e chiuso definitivamente.
Dopo restauro da parte dell'Amministrazione Comunale di Taranto, che lo aveva acquisito nel dopoguerra, oggi l'edificio è sede del Tribunale dei Minori.






domenica 9 luglio 2017

Pur'a mugghière d'u sìnneche à sprusciàte!

Oggi è domenica, giorno di messe e di prediche che da sempre sono la parte più importante della funzione religiosa domenicale. L'omelia spiega il vangelo ma soprattutto è il mezzo per comunicare ai fedeli i dettami della nostra religione, ma anche quello attraverso il quale i preti evidenziano i problemi morali della comunità che, denunciati in confessionale si risolvono sul pulpito.
L'importanza della predica è  testimoniata dai pulpiti, che sono elementi architettonici sopraelevati, presenti nelle chiese antiche, utilizzati proprio per le prediche.
A decretarne l'efficacia è l'usanza, in tempo di Quaresima, di ospitare in parrocchia dei monaci predicatori che aiutano i parroci nelle confessioni e nelle prediche, in quel periodo di massima costrizione.

A riguardo esiste un simpatico aneddoto che racconta proprio di questo.

"Tanti anni fa, pare che un curato, scandalizzato dal modo con cui le parrocchiane, in confessionale, denunciavano la facilità con cui tradivano i mariti, non potendo fare altro per rispetto del luogo e delle sue morigerate orecchie,  consigliò alle peccatrici di confessare il loro tradimento con un allegorico "sono scivolata".
 

Così le confessioni cominciavano con: < dimmi figliola...>
continuavano con: < Padre hagghie sprusciàte...>
per finire con: < Stai più attenta figliola, evita il peccato...>
PaterAveGloriaAmen ..... 


Per buona pace di tutti le cose andarono così finchè, in tempo di Quaresima, non arrivò un predicatore che veniva dal nord... nu furàstiere.
Il confessore era cambiato ma i peccati no e neanche la formula da confessionale che il predicatore, non conoscendone  l'allegoria, continuò ad assolvere senza problemi, data l'esiguità del peccato.
Col passare del  tempo quelle scivolate erano quasi  l'unico peccato bisbigliato in confessionale, tant'è che il predicatore, che aveva girato buona parte dell'Italia, convenne di trovarsi in un posto quasi angelico, che avrebbe raggiunto la perfezione se ci fosse stata più cura nella manutenzione del  lastricato delle vie.
Dopo la Pasqua arrivò per lui il momento di abbandonare la parrocchia e  l'ultima sera di predica, nell'accomiatarsi dai suoi fedeli, ne asaltò la bontà, l'onestà e le buone abitudini e terminò raccomandando alle autorità intervenute, la manutenzione delle strade, poichè tutte le donne, anche la moglie del sindaco, erano scivolate.
Inutile dire quanto i fedeli ascoltatori rimasero perplessi!


Da allora il predicatore di Quaresima si scelse sempre tra coloro che conoscevano bene il dialetto e le usanze locali e tutte le loro sfumature...
... e da allora i tarantini, per alleviare il peso di certi copricapi e sminuire la gravità di certe abitudini, usano dire:
< Eh!  pur'a mugghière d'u sìnneche à sprusciàte! >



venerdì 3 marzo 2017

Il giorno dei barbieri

Il primo venerdì di Marzo è la giornata dei barbieri.

Un'antica tradizione infatti ci tramanda che se tagliamo i capelli in questa giornata
- i capelli ricresceranno più forti,
- saremo protetti dal malocchio,
- non soffriremo di mal di testa per tutto il resto dell'anno.

Un tempo questo rito propiziatorio veniva osservato specialmente per i bambini, anche neonati, a cui le mamme, in questo giorno, tagliavano un ciuffettino di capelli.
Ovviamente non occorre raparsi a zero e neanche andare dal barbiere, basta tagliare una ciocca e...
salagadula magicabula bibbidibobbidibù
il mal di testa non ci verrà più!

mercoledì 8 febbraio 2017

Il Duca di Grazzano

Da qualche anno nella mia stanza ho appeso questa stampa, 
niente di tarantino ma, secondo me, una bella e importante filosofia di vita scaturita da una storia che vale la pena conoscere.
 
GRAZZANO VISCONTI, è piccolo borgo nel comune di Vigolone in provincia di Piacenza, antico ducato della famiglia Visconti. 
Nel 1395 il duca Gian Galeazzo Visconti, Signore di Milano e di altre città del nord, autorizzò la sorella Beatrice, sposata al nobile piacentino Giovanni Anguissola, a costruire un castello nella loro proprietà di Grazzano.
Nel 1870, l'ultimo signore del castello, Filippo Anguissola, morì senza lasciare eredi. I beni passarono alla madre Francesca (Fanny) Visconti, vedova di Gaetano Ranuzio Anguissola, che a sua volta, nel 1883, lasciò i possedimenti al nipote Guido Visconti di Modrone. Alla morte di quest'ultimo il castello andò in eredità al figlio Giuseppe Visconti di Modrone.
L'eredità era costituita da un castello imponente ma ormai in rovina, con mura sgretolate e intere parti pericolanti, circondato da un terreno popolato da umili case contadine.
Ma Giuseppe Visconti di Modrone era un uomo dai mille interessi e dalle idee geniali che pensò di rivalutare l'eredità di famiglia per renderla degna del blasone e utile alla società.
Per rendere possibile le sue idee si avvalse della collaborazione dell'architetto liberty Alfredo Campanili. I lavori cominciarono subito e in soli tre anni (1905-1908) il lavoro era finito, era sorto un paese operante e abitato, ma esattamente identico a un villaggio medievale.
Re Vittorio Emanuele III, entusiasta della realizzazione, con un regio decreto del 1915, decretò che al nome antico di quel paese, Grazzano, dovesse aggiungersi “Visconti”, come doveroso omaggio al suo creatore.
Ma il riconoscimento del Re non servì a fermare le malelingue e gli invidiosi che criticavano l'opera dando del "megalomane" al suo ideatore, il quale in tutta risposta, sul castello, dipinse un garofano rosso con attorno un cartiglio riportante una frase in una lingua sconosciuta:

  “otla ni adraug e enetapipmi”.
Quella misteriosa scritta, altro non era che la risposta del Visconti ai suoi detrattori e, per risolvere l'arcano, basta solo leggere la scritta al contrario, da destra verso sinistra, e magicamente si leggerà la frase:  “Impipatene e guarda in alto”.
Era questa la sua filosofia di vita, che lo portò a continuare il suo progetto utopico di moderno medioevo, di un paese autonomo e autosufficiente, dotato di tutti i servizi utili ai suoi abitanti. Nel 1910 aveva già l'asilo, la scuola, un mulino, una scuola di ebanisteria a cui, in seguito si sono aggiunte la stazione tramviaria, una fabbrica di conserve di pomodori, un laboratorio di lavorazione del ferro battuto... nulla doveva mancare a questo borgo travestito all’antica.
I sette figli del duca, tra cui il famosissimo Luchino Visconti, vissero questo borgo come se fosse un immenso parco giochi ambientato nel 1300 i cui abitanti - per espresso volere del duca - giravano vestiti con abiti d'epoca disegnati dal figlio Luchino, che sin da ragazzino, organizzava in questo borgo, recite e rievocazioni storiche, esercitando sin da bambino l'arte di regista.
In seguito l'immagine del garofano col cartiglio illeggibile divenne una simpatica immagine dal potere esoterico, che fu dipinta, ad opera dello stesso duca, su molti edifici del borgo.

Se volete saperne di più: http://www.grazzano.it/

martedì 17 gennaio 2017

... E passe pe' trentanove!


E un modo di dire usato quando si lascia passare una menzogna oppure un gesto o un atteggiamento poco corretto.

Questa locuzione nasce dal vezzo, tutto femminile, di mentire sulla propria età nascondendosi gli anni.

Si racconta di una donna celibe, una "zitellona" che, dopo il trentanovesimo anno  continuò a dire sempre di avere  trentanove anni.
Ormai prossima alla cinquantina, dovendo dichiarare la propria età, con il consueto vezzoso sorriso rispose: 
< Trentanove >
Il suo interlocutore, osservandola con aria incredula rispose:  
< E passe pe' trentanove! >
Concedendole galantemente di fermare la sua età alle soglie dei temuti " anta".

giovedì 12 gennaio 2017

Marta 'a piàtose...

Modo di dire poco conosciuto e usato ancora meno, che pone l'accento sulla "carità pelosa", quella carità deformata e scelleratamente trasformata da virtù a vizio, molto più diffusa e praticata di quanto si possa pensare.
La prima domanda che nasce spontanea è: < chi era questa Marta? >

In effetti nessuno lo sa ma, vista l'accezione, probabilmente deriva dall'opera " Marta la piadosa " del canonico, drammaturgo spagnolo Gabriele Tèlez, alias Tirso de Molina (1579 - 1648),
in cui si racconta la storia di Marta, una ragazza innamorata di un giovane che sarà accusato dell'omicidio del fratello. Costretta a sposare l'uomo sceltole dal padre, a sorpresa, rivela a tutti di aver fatto voto di castità e si dedica all' assistenza dei bisognosi e dei malati. In realtà questa messa in scena le serve per poter incontrare liberamente l'amato che, dopo svariate vicissitudini, tra intrighi e menzogne, riuscirà a sposare.


La seconda domanda  riguarda una locuzione poco usata: " masticare brodo" -  un'azione priva di senso e utilità quanto impossibile - usata per descrivere un perditempo, un fannullone.