giovedì 3 maggio 2018

Il Giovedì dei miracoli

Oggi è il quarantesimo giorno dopo la Pasqua, giorno in cui la nostra religione festeggia l'Ascensione e ricade sempre di govedì (anche se la chiesa lo festeggia la domenica successiva) e voglio ricordare una tradizione non tarantina che coinvolge molti tarantini.

Un giovedì speciale che, per tutti gli Orietani e per tutti i devoti di San Cosimo alla Macchia, viene detto " della Perdonanza" o  "dei miracoli".
Il pellegrinaggio nasce da una antica e radicata devozione verso i SS Medici e per questo Santuario di Oria, custode delle Loro Reliquie.  Una devozione che perdura ancora oggi e che nasce da un voto, da una promessa o come riconoscenza per grazia ricevuta.
Una volta il pellegrinaggio si faceva  su traini e scerabbàlle. Oggi i  pellegrini arrivano al Santuario già alle prime luci dell'alba, vengono da Oria, da Brindisi ma anche dalle province di Taranto e da Lecce e non solo in pullman o in macchina ma, oggi come ieri, soprattutto a piedi.

Dopo aver rinfrancato lo spirito col pellegrinaggio, l'ascolto della Messa, la visita di ringraziamento all'Altare dei Santi,   bisogna pensare anche  a rinfrancare il corpo, rifocillandosi all'ombra di un albero per poi rilassare la mente, girando per il mercatino dove acquistare qualcosa da portare a casa. 
Molte le cose da comprare: vummìli, capàse, ciàrle e zirùli;
i prodotti tipici  più venduti, sono sicuramente quelli mangerecci: 
  •  pupiddi alla scapece - pesciolini fritti e conditi con mollica di pane, aceto e zafferano;
  • mustazzuèli 'nnasprati - i mostaccioli - biscotti tipici, ricoperti da una glassa al cacao. 
Ma di una cosa non si può proprio fare a meno: le fettucce de Sante Coseme, dette anche: capisciòle o ziarèdde ...  
insomma, i tipici nastri colorati dei colori dei SS Medici: rosso, verde, giallo - da portare  in dono a parenti e amici a testimoniana del nostro pellegrinaggio ma anche perchè ritenute potente simbolo di protezione.








giovedì 26 aprile 2018

Cítte Tu! Ca Mamete cònde

Cítte Tu! Ca Mamete cònde.
 
Una frase che noi tarantini usiamo ancora oggi per zittire chi si intromette in discorsi che non lo riguardano ma che come per la maggior parte dei modi di dire, pochi ne conoscono l'origine.

 E' un detto che mi piace ricordardare oggi, 19 marzo, giorno in cui si commemora San Giuseppe, proprio perchè l'aneddoto nasce da un fatto realmente successo proprio nella Chiesa di San Giuseppe.
 

Una volta le nicchie dei Santi erano illuminate da lumini ad olio offerti e mantenuti accesi dai devoti che, facevano carico di rimboccare l'olio degli stoppini, gesto che, in tempi in cui l'olio veniva usato con grande parsimonia, comportava sacrifici e privazioni.

Si diceva che sulla tavola del sacrestano della chiesa di San Giuseppe l'olio non mancava mai.
Si racconta infatti che ogni sera,all'ora della chiusura, il sacrestano, passava davanti alla statua della Madonna col Bambinello e dopo essersi segnato col segno della croce Le chiedeva: 
Madonna mejie Te despiace ci me pigghie nu picche d'uegghie pe 'ccunzà a 'nzalàte?" 
Ovviamente la  Statua non proferiva il Suo dispiacere e lui procedeva a spegnere i lumini, provvedendo anche a svuotare l'olio degli stoppini.
Il parroco, insospettito dal consumo anomalo dell'olio, una sera si nascose e scoprí la manovra del sacrestano.
La sera successiva il parroco si appostò nuovamente  e quando il sacrestano fece la solita domanda alla Madonna, contraffacendo la voce rispose:

"No, non puoi!"
Il sacrestano rimase sorpreso ma, dopo lo stupore iniziale, rivolgendosi  al Bambinello  rispose: "Cítte Tu! Mamete cònde".
A questa risposta il parroco si rivelò scoppiando in una fragorosa risata.
























 

giovedì 8 marzo 2018

Fiorenzo e Ardelia

Quella che voglio raccontare è una storia d'amore pubblicata sulla "Rassegna Pugliese - di scienze, lettere ed arti"- di luglio 1884,  intitolata "Ardelia - cronaca tarantina del 1301"  a firma dell'avvocato e scrittore tarantino Alessandro Criscuolo (1850 - 1938).
E' una storia non verificata, in cui anche il nome del principe viene volutamente omesso dall'autore, proprio la sua distanza dalla realtà storica la rende avvincente come solo una favola può essere.
Questa favola affascinò anche il grande compositore tarantino Emilio Consiglio che ne fece una lirica contenente "i canti di Fiorenzo e Ardelia", serenate che fanno da sfondo a questa incredibile storia d'amore ambientata a Taranto.

FIORENZO E ARDELIA
Fiorenzo Altieri era un ardimentoso giovane di gallipoli che entrato come paggio alla corte del Principe di Taranto, ne divenne poi abile scudiero col compito di occuparsi del cavallo della figlia del Principe, la bella Ardelia.
Il Marchese di Castellaneta invitò il Principe alla consueta partita annuale di caccia al falcone.
Il corteo del Principe si mosse all'alba, giunti nei pressi della gravina il cavallo della principessa Ardelia sull'orlo di un precipizio, si spaventò, l'ardimentoso Fiorenzo fronteggiò il cavallo per evitare il peggio ma il cavallo disarcionò la principessa che cadde a terra in fin di vita.
Le assidue cure dello speziale di corte e le visite giornaliere di Fiorenzo che le faceva compagnia leggendole libri e cronache di gesta eroiche di cavalieri in difesa dell'onestà delle loro donne, fecero guarire Ardelia che, innamoratasi del suo scudiero, chiese al padre di acconsentire che Fiorenzo la raggiungesse tutte le sere per continuare a leggerle quei racconti.
Un giorno a corte giunse la voce che, in terra di Bari, uno spagnolo aveva sostenuto che la madre di Ardelia avesse tradito il principe suo marito, e Ardelia ne pianse tanto che Fiorenzo, per calmarla, le pro­mise che avrebbe lui stesso sfidato a duello lo spagnolo.
Tanto disse e così fece, Fiorenzo sfidò lo spagnolo e dopo pochi colpi riuscì a sopraffarlo, puntò la sua spada sul petto dello spagnolo e gli fece giurare che la moglie del Principe era tra le più oneste del Principato di Taranto.
Riscattato l'onore del principe e della sua consorte, Fiorenzo ottenne l'amore eterno della principessa Ardelia e ogni sera, mentre tutti dormivano la raggiungeva e passavano insieme la notte ma...
"tosse et amorem nascudire non potest"...
Durante una notte tempestosa, una guardia fu svegliata da un rumore e intravide la sagoma di un uomo entrare nelle stanze dalla principessa, bussò minacciosamente, intimando di aprire. Ardelia era tremante, Fiorenzo, ricordandosi di una antica leggenda di fantasmi che si aggiravano per il castello nelle notti di pioggia, si coprì con un lenzuolo e, quando la guardia entrò gridando:
chi è là? -
senza perdersi d'animo rispose:
lo spirito del duca Randello! -
il soldato, tremante, si fece tre volte il segno della croce e scappò.
Il giorno dopo il Principe, aggiornato dell'accaduto, non credendo ai fantasmi e sentito il parere di Fulgardo, giureconsulto di corte, condannò Fiorenzo all'esilio, e alla pena di morte qualora lo avesse violato avvicinandosi al castello.
Fiorenzo ritornò nella sua Gallipoli ma non si arrese alla minaccia di morte e, con la complicità della sua ancella, appena poteva, travestito da mercante, contadino o frate, di notte raggiungeva la sua amata Ardelia nelle sue stanze.
Una notte la banda di Irpino Ajello, approfittando dell'assenza del Principe, saccheggiò e incendiò il castello. Fiorenzo cercò di intervenire ma fu legato e rinchiuso nel sotterraneo.
Il castello fu semi distrutto dalle fiamme e le guardie, per salvarsi, raccontarono al Principe di aver catturato il colpevole e di averlo rinchiuso nelle segrete.
Riunita la Corte, il Principe, condannò a morte Fiorenzo e alla clausura, nel Monastero di Santa Chiara, la figlia Ardelia.
Dopo circa un mese, una mattina all'alba Ardelia fu svegliata da uno strano rumore nella piazza sottostante, insospettita, si arrampicò ai ferri della grata e vide il suo Fiorenzo salire sul patibolo - un dolore immenso le tolse le forze e cadde a terra priva di sensi.
Ardelia non si riprese più da quel dolore e dopo sei mesi morì dopo aver chiesto, alle suore che l'avevano assistita, di essere seppellita con il suo amato.
Le suore rispettarono le ultime volontà di Ardelia e, in una notte di plenilunio, la seppellirono nella fossa dove giaceva Fiorenzo.
Sulla fossa nacque una pianta dalla quale ogni primavera spuntavano due fiori bellissimi che si intrecciavano e rimanevano uniti fino all'inverno, quando appassivano per rinascere in primavera.


Poi il 23 giugno 2016, durante lavori dell'acquedotto pugliese ritrovano una tomba con due scheletri abbracciati, " gli amanti di Taranto", pare risalenti a 2000 anni fa...
ma ... se fossero Fiorenzo e Ardelia?


giovedì 15 febbraio 2018

Tre sorelle

Quella che vado a raccontare è la storia di una famiglia, padre, madre e tre sorelle in età da marito. 
Erano buone, brave e belle ragazze ma tutte e tre avevano evidenti difetti di pronuncia.
I genitori, preoccupati per il loro futuro, si prodigavano per cercare giovani pretendenti.
Una domenica mattina il padre annunciò che in mattinata si sarebbe presentato un giovane per parlare lui. 
La madre preoccupata del difetto delle figlie, in quella circostanza, si raccomandò loro di rimanere in rigoroso e prudente silenzio.
Il giovane si presentò quasi a mezzogiorno, e la donna aveva già acceso il fuoco sotto la caldaia.
Il giovane parlava con il padre delle ragazze, la madre si preoccupava di offrire loro del rosolio e le tre sorelle intorno al tavolo, in rigoroso silenzio, si fingevano in altre faccende affaccendate quando si accorsero che l'acqua della caldaia cominciava a bollire.
Emozionate dall'ospite e distratte da quel momento di confusione le  sorelle parlarono. Cominciò la più piccola: < fè fè a catà! >
la seconda rispose: < mè mè maccaù! >
e la più grande le rimproverò: < tè tè facìme! 'a mamme n'ha dditte de no faveddà e nu faveddàme? >

Facile dedurre che a questo punto il guaio era fatto e nell'imbarazzo generale il giovane pretendente salutò educatamente e non si fece rivedere mai più.
 


KALIMERA




Neanche i Romani furono immuni alla bellezza delle tarantine. Proprio nel III secolo A.C. quando Taranto era assediata dai Romani, a Taranto viveva una bellissima ragazza, KALIMERA
Una mattina come tante altre, Kalimera si affacciò dalle mura di cinta tarantine per guardare l’accampamento romano, ma i suoi occhi incontrarono quelli del comandante dell’esercito romano, il console Tumulo. I due si innamorano perdutamente, ma tra loro e l’amore c’erano le inespugnabili mura che proteggevano la città di Taranto che impedivano a Tumulo di entrare e a Kalimera di uscire, così che i due giovani non potevano amarsi.
Una notte Kalimera, riuscì ad eludere le sentinelle e ad aprire una delle porte per far entrare Tumulo, ma con lui entrarono anche i suoi soldati che occuparono la città.
Per fortuna i tarantini furono pronti a rispondere all’assalto con tutto il loro spirito guerriero e riuscirono a cacciare i romani che ritornarono nel loro accampamento e a fare prigionieri i più ardimentosi, tra cui Tumulo.
Ma chi aveva tradito doveva pagare e si fece presto a scoprire Kalimera che, per il suo gesto, secondo le leggi del tempo fu condannata al rogo.
Appena preparata la pira al centro della città, vi issarono Kalimera. Ad assistere all’esecuzione c’era anche Tumulo che, appena le fiamme toccarono Kalimera, si liberò dalla morsa delle guardie che lo tenevano immobilizzato e salì sul rogo, abbracciando finalmente la sua Kalimera e scegliendo di morire con lei.
Una storia triste ma allo stesso tempo romantica, eroica, bella e meritevole di essere tramandata perchè la leggenda vuole che ancora oggi in alcune vie della città, sia possibile udire i bisbigli d’amore e le urla di dolore dei due amanti che la vita ha voluto divisi e la morte ha unito per l’eternità.   

lunedì 22 gennaio 2018

I medici e la spina.

Un giorno un pescatore, mentre lavorara, si fece male ad una mano. 
I giorni passavano ma la ferita non guariva e la mano era gonfia. Decise così di andare dal suo medico di famiglia. 
Il dottore disinfettò la ferita, gli fasciò la mano e gli disse di ritornare dopo tre giorni.
Tre giorni dopo il pescatore tornò dal medico che medicò la ferita, cambiò la fasciatura e gli disse di tornare dopo tre giorni.

La cura andò avanti così e, tra una medicazione e l'altra,  come creanza vuole, il pescatore, non mancava di portare al medico casse di pesce fresco.

Intanto, l'anziano medico, ormai prossimo alla pensione, un giorno si assentò, lasciando nello studio il figlio che, fresco di laurea si preparava a prendere il suo posto.
Quel giorno il pescatore doveva fare la sua medicazione. Quando arrivò il suo turno, entrò nello studio e mostrò la mano dolorante al giovane medico che, dopo aver esaminato la ferita, prese una pinza e tolse la spina che aveva al dito e che era causa dell'infezione e, dopo aver disinfettato salutò il pescatore che già cominciava a sentirsi meglio.

Finita la giornata il giovane dottore tornò a casa e raccontò al padre come era andata:
<... è stata una giornata tranquilla, è venuto un  pescatore per la medicazione alla mano ma mi sono accorto che il problema era una spina in un dito, l'ho tolta ed è andato via che si sentiva già meglio. >
Il padre lo guardò e gli disse: 
< Bene, sei stato bravo! Ma devi imparare molto. Sapevo di quella spina che stavo medicando da tempo e non era un pericolo. Ora l'hai tolta, il pescatore guarirà, ma noi abbiamo finito di mangiare pesce fresco! >

Le pestùre de Zuccarette


 I proverbi sono un compendio di saggezza popolare e fanno parte della cultura nazionale, tradotti in ogni dialetto, trovano riscontro in ogni regione, provincia e paese ma, ci sono dei detti che rimangono tipici di una delimitata zona perchè citano personaggi locali.


A Taranto si dice:
  • Cè tenime le pestùre de Zuccarette?   (mica abbiamo le cisterne d'olio di Zuccaretti)
oppure: 
  • Do Zuccarette t'attòcche! (da Zuccaretti ti tocca andare)
Queste erano le risposte tipiche date a chi si lamentava per la scarsità dell'olio nelle pietanze. 

Ma chi era questo proverbiale Zuccaretti?

Arcangelo Valente, illustre storico tarantino, nel suo libro Case vecchie e case nuove  a proposito delle abitazioni nobili della città vecchia dice:
"Nella piazzetta San Costantino era la splendida casa dei Falconibus, oggi appartenente ai Gigante, dove albergò Ladislao Durazzo, sposo di Maria di Brienne, principessa di Taranto e vedova di Raimondo Orsini... Rimpetto stava l'abitazione dei Montefuscoli, casa Zuccaretti ..."
 Da questo si deduce che, nella rinomata zona bene della città vecchia, esisteva una casa Zuccaretti, dove vi abitava una famiglia Zuccaretti,  una famiglia nobile di origine napoletana, di cui si sa poco e niente, tranne che Michelangelo Zuccaretti ne fu l'ultimo esponente, l'ultimo feudatario. In giovane età perse il padre, ucciso da ladri che saccheggiarono la loro dimora, Michelangelo allora decise di lasciare per sempre Taranto  e rigugiarsi nel castello di Massafra dove morì la notte del 15 maggio 1859 all'età di 65 anni.
 Rinomata invece la loro immane ricchezza e i loro proverbiali pesture, ossia cisterne nelle quali conservavano l'olio di oliva prodotto dai loro vasti uliveti. 
La vastità del patrimonio era pari alla noncuranza dei proprietari, e le pesture de Zuccarette, poichè la sorveglianza era quasi del tutto inesistente, erano oggetto di interesse da parte dei ladri che avevano libero accesso a sottrarre notevoli quantità di olio al ricco signore.
I ladri, al contrario dei padroni, non erano sprovveduti, e si organizzavano a turni, mettendo sempre qualcuno come palo, il quale rassicurava i compagni con la frase:  

  • fatiàte allegramende, ca da quà no ppasse ggende!
frase usata ancora oggi per apostrofare chi compie un'azione illecita.
Invece il detto: Puzze d'uegghie de Zuccarette!(Puzza di olio di Zuccaretti ) viene usato per sottolineare la dubbia origine di qualche fortuna.