venerdì 29 ottobre 2010

Sckuma


Passeggiando per la ringhiera, guardando la costa, si possono scorgere delle statue raffiguranti delle donne adagiate sugli scogli...  sono le Sirene di Taranto. Non sono reperti archeologici, ma l'opera di un artista contemporaneo, lo scultore Francesco Trani, che le ha realizzate in cemento marino per renderle più resistenti l’azione corrosiva dell'acqua marina, e le ha volute donare alla città. A guardarle fanno ricordare la storia di Ulisse, e con un po’ di fantasia sembra quasi di poter riascoltare il loro canto ammaliatore e schiavizzante, che sedusse l’omerico Odisseo.

A memoria dei pescatori il mare di Taranto è, ed è sempre stato, generoso e tranquillo, libero dalle sirene temute da ogni pescatore. Ma ogni città di mare ha le sue leggende con sirene e uomini pesce. E si racconta che Taranto, essendo bagnata da due mari, fosse il luogo preferito dalle sirene che ne avevano fatto la sede del loro castello incantato...ed in questo contesto nasce la leggenda di.....

 SCKUMA
Tanto tempo fa, a torre Municedde (Torre Monicella - una della Torri del Castello Aragonese) - nei pressi dell'attuale discesa Vasto - viveva una coppia di giovani sposi.
Lei una ragazza dalla fiera bellezza tarantina, lui un aitante e abbronzato giovane pescatore nostrano.
La vita di mare si sà, è dura e il giovane salutava la moglie all'alba per rincasare al tramonto e a volte le sue assenze duravano anche alcuni giorni.
La bella e giovane sposina, non lasciava indifferente il signorotto del luogo, che approfittava delle assenze del marito per farle regali costosi, con l'intento di circuirla, finchè un giorno non riuscì a sedurla.
La sera di ritorno a casa, il marito la trovò in lacrime e lei prostrata dalla vergogna e dal forte senso di colpa le raccontò tutta la storia. Il marito, dopo quella confessione, non ebbe nessuna reazione, ma il giorno dopo all'alba, chiese alla moglie di accompagnarlo  a lavoro. Salirono in barca e quando furono a largo di Mare Màsce, il giovane spinse la moglie fuori dalla barca. Lei non sapendo nuotare affondò...

Di lei si accorsero le sirene, che affascinate dalla sua bellezza la portarono nella loro reggia e ne fecero la loro regina dandole il nome di "Skuma" (Spuma) perchè era stata portata dalle onde.
Nel mondo delle sirene la donna trovò una nuova vita, era servita e
riverita  circondata da ogni lusso. Visitava i loro giardini incantati, circondata da fiori di corallo. Indossava diademi e gioielli, ma era sempre triste. Non riusciva, infatti, a dimenticare il marito che tanto amava.
Intanto il pescatore si era pentito del suo insano gesto e giorno dopo giorno piangeva a calde lacrime la sua sposina e nella sua disperazione tornava nel punto dove era annegata, noncurante del pericolo delle sirene.

Un giorno, mentre le sirene erano intente a lanciare i loro incantesimi, si accorsero di una imbarcazione ed intonando i loro canti ammalianti costrinsero il pescatore a gettarsi in mare, e si impadronirono dell'imbarcazione, portandola nel loro castello sottomarino.
Sckuma appena la vide, riconobbe la barca del marito e pregò le sirene di lasciarlo in vita.
Le sirene accontentarono la loro triste regina, salvarono il pescatore, riportandolo a riva.
Risvegliandosi, il pescatore ricordò quello che li era accaduto, e soprattutto ricordò la bella regina delle sirene che le ricordava la sua sposa... 
L’uomo fu soccorso dai marinai, e mentre lo riportavano a casa continuava a ripetere “la mia sposa, la mia sposa sirena”.
Fu così che il marito capì di aver sbagliato, la disperazione di entrambi aumentò poiché non potevano più vedersi. Il pescatore passava le sue giornate girovagando per le spiagge, nella speranza di poter vedere la sua sposina. Tutti lo credevano matto, ma un giorno incontrò una fata, che impietosita dal suo pianto, le chiese cosa gli era accaduto.
La fata gli disse che c'era un modo per liberare la moglie dalle sirene: bastava raccogliere l'unico fiore di corallo bianco del giardino delle sirene.
Il pescatore rincuorato si fece prestare una barca, andò al centro del golfo e si mise a chiamare a squarciagola la moglie. Eludendo la sorveglianza delle sirene, Skuma riuscì a scappare dalla reggia. Chiese aiuto ai pesci, che la portarono in superfice, dove riapparse al suo amato sposo, che felice di poterla riabbracciare, le raccontò quello che aveva saputo dalla fata.
Sckuma, però non fu contenta. Lei sapeva che quel fiore era il frutto di un incantesimo che le fate avevano fatto alle sirene, e che se fosse tornato in possesso delle fate, tutte le sirene sarebbero morte, compresa la loro regina.
Ma il marito la rassicurò dicendole che la fata gli aveva rassicurato che a lei non sarebbe successo nulla.
Così, prima di salutarsi, la sirena disse al marito di prendere tutti i loro risparmi e di comprare i più bei gioielli che avesse trovato, di metterli in barca e di navigare nel golfo.
Il marito tornato a casa, fece quanto le aveva detto la moglie, e caricati i gioielli sulla barca, uscì per mare. Subito dopo, uno stuolo di sirenelo inseguì cantando, per riuscire a rubargli i gioielli, ma l’uomo resistette così a lungo da costringere tutte le sirene a riaffiorare, lasciando incustodito il loro castello, permettendo a Sckuma di rubare il fiore di corallo bianco e di riportarlo alla  fata, che attendeva sulla spiaggia.
Appena il fiore fu consegnato alla fata, una enorme onda schiumosa portò tutte le sirene verso altri lidi lontani, mentre Sckuma e il pescatore si ritrovarono sulla spiaggia, e quando si risvegliarono, l'uno accanto all'altra,  ritornarono a casa dove vissero felici e contenti.


Arcangelo Valente, parlando della storia di Skuma nel suo libro “Case vecchie e case nuove”, da un finale diverso a questa storia, scrive che il giovane pescatore venne trascinato via dall’onda insieme con le sirene, mentre Skuma, rimasta sola e senza speranze, decise di indossare l’abito monastico.

La tradizione popolare vuole che, da quel giorno, nelle notti di plenilunio, Skuma, vestita da monaca, si aggiri per il Golfo di Taranto sperando nel ritorno dell’amato e che da questa leggenda, deriverebbe il nome di una delle Torri abbattute del Castello Aragonese, quella detta, appunto, Torre municedda (Torre della monachella).

sabato 9 ottobre 2010

Cummà furmeculecchia (comare formichina)

Una volta finite le filastrocche iniziavano  “ le cunte ”  che non erano semplici favole divertenti, ma racconti che educavano ad affrontare con saggezza la vita quotidiana.  Il primo che mi ricordo parlava di una formichina devota, parsimoniosa, premurosa , fedele e di un topolino goloso …
...
Stàve na’ vòta na furmeculecchia  ca ogni dumeneca sceve a Messa. Na’  dumeneca mentre ca stè assève d’a  Chiesa acchiò nu’ soldo e accumenzò a penzà:…..
(una devota formichina che ogni domenica andava a sentire messa, mentre usciva dalla chiesa trovò un soldo)
<e c’è m’accàtte?.... m’accàtte na noce? … No! Ca tene ‘u squercele m ‘accàppa ‘ncanna e me  face murè…> (mi compro una noce?  ma ha il guscio, mi resta in gola e mi fa morire)
< m’accàtte na  ceràsa?  …… No! Ca tene ‘u nuzzele gruessu … m ‘accàppa ‘ncanna e me  face murè…> (mi compro una giliegia? ma ha il seme grosso, mi resta in gola e mi fa morire)
<…mo m’accàtte na capisciòla culurata, m ‘attacche le capidde, m’affaccio a’ finestra e me ‘mmarìte.> (mi compro un nastro colorato, mi lego i capelli, m'affaccio alla finestra e cerco marito)
Come ‘a penzò ‘a fece, e mentre stave a’ finestra passò nu ciucce: (così fece e passò un asino)
<Cummà furmeculecchia cè ste ‘face  alla finestrecchia?> (comare formichina che fai alla finestrina?)
<Mi vogghie maritare!> (mi voglio maritare)
<E cè me uè a me?> (per caso vuoi me?)
<E tu come face ‘a notte?> (e tu come fai di notte?)
<Iiihooo...Iiihooo...Iiihooo!> 
< Come face brutte! ije me sbande, no te vogghie>
(che brutto! io mi spavento, non ti voglio)

Passò nu cane:       
<Cummà furmeculecchia cè ste ‘face  alla finestrecchia?> 
<Me vogghie maritare!>
<E cè mi uè a me?>
<E tu come face a notte?>
<Bauh ... bauh ... bauh!>                                                  
< Come face brutte! ije me sbande, no te vogghie>
Passò  nu jatte:
<Cummà  furmiculecchia cè ste ‘face  alla finestrecchia?>                                                <Me vogghie maritare!>
<E cè me uè a me?>
<E tu come face ‘a notte?>                                                                                                        <Miaooo ... miaooo ...  miaooo!>   
< Come face brutte! ije me sbande, no te vogghie>
Passò nu surgìcchie: (passò un topo)
<Cummà furmiculecchia cè ste ‘fa alla finestrecchia?>
<Me vogghie maritare!>
<E cè me uè a me?>
<E tu come face  ‘a notte?>
<Zìuzìu ...  zìuzìu ...  zìuzìu!> 
< Come sì ‘ngraziàte,  ti vogghie.>
(come sei carino, ti voglio)
 

Come ‘a penzò ‘a fece  e se ‘maritò. (come la pensò la fece e si sposarono)
Le zite erano felici e cundiente. A’ dumeneca cummà furmeculecchia mentre stè scève a’ messa, disse a  cumbà surgicchiu (gli sposi erano felici e contenti. La domenica comare formichina andando in chiesa disse a compare topolino):
<Stàtte scuscitàte ca hagghie cucinàte, mo ca torne mangiàme.>                                                                                 
(stai tranquillo che ho cucinato, ora che torno mangiamo)

Rimaste sule cumbà surgicchie sintì n’addòre  ca venève d’a cucina… nu picche pe fame nu picche pe nanca,  se ‘mpirnicò alla pignata, cadì indre  e murì…
(rimasto solo il topolino sentì un profumino che veniva dalla cucina ... un po' per fame un po' per golosità, si arrampicò alla pentola, cadde dentro e morì)
Quanne cummà furmeculecchia turnò a casa, s’addunò ca cumbà surgicchiu nonge stàve e penzò ca era assute….
(quando la formica tornò a casa si accorse che il topo non c'era e pensò che fosse uscito)...
L’aspettò buene tiempe e pensò: "Bhè! ije mo mange. Quanne s’arritìre mangie pure idde."
(l'aspettò per un pò e poi pensò "Bhè!io mangio. Quando si ritira mangia anche lui")
Mentre ste ‘mmenestrava, vidì surgicchie muerte  … e si mèse a chiàngere:
(mentre impiattava, vide topolno morto nella pentola e si mise a piangere)
<Surgicchie mie surgicchie, muerte cucinàte! Cattìa m’è lassàta p’a’ nanca d’a pignate!>(topolino mio, morto cucinato! vedova m'hai lasciata per la golosità della pentola!)
Cummà furmeculecchia  chiangì tante ‘u  marite ca ‘u sci acchiò n'Paradìse. (Comare formichina pianse tanto il marito che lo raggiunse in paradiso).

sabato 2 ottobre 2010

'U ntrattiene d‘u ciucce e a melote (l'intrattenimento dell’asino e lo scarafaggio)

A tutti da piccoli è capitato di essere mandati dalla nonna a farsi dare ‘u ntrattiene,  ma quando andavamo dalla nonna, lei ci prendeva per mano e cominciava:

Stave ‘na vote                                             (c’era una volta)
nu ciucce e na melote                                  (un asino e uno scarafaggio)
ca facevene vota vota                                 (che giravano sempre in tondo)
‘u vuè cundàte n’odra vote?                       (vuoi che te lo racconti di nuovo?)

e tutti a questa domanda rispondevamo: < Siiiiiiiii !>

Volevamo capire cos’era ‘u ntrattiene che serviva alla mamma…
Volevamo sapere perché facevano vota vota…
Volevamo capire cosa avevano a che fare ‘u ciucce, a melote e ‘u ntrattiene…
E invece ad ogni nostro “Si” seguiva la stessa tiritera:
Stave ‘na vote 
nu ciucce e na melote 
ca facevene vota vota 
‘u vuè cundàte n’odra vote?

La storiella si ripeteva un po’ di volte finchè non cominciavamo a fare i capricci e la nonna era costretta a cambiare, allora ci prendeva sulle ginocchia e prendendoci la mano cominciava:

“ pipirinijedde ”                       (toccando il mignolo)
“ fiore d’anjiedde ”                  (toccando l’anulare)
“ ’u chiù granne de tutte ”        (toccando il medio)
“ ’u lecca piatte ”                     (toccando l’indice)
“ ‘u ‘cìte piducchie ”                (toccando il pollice)

per poi continuare facendoci dondolare sulle ginocchia canticchiando:

Oppe galoppe a Napule n’attocche                        (galoppando ci tocca andare a Napoli)
E cu la carruzzìne ‘u piccìnne arrìve apprime        (e con la carrozzina il bimbo arriva prima)

Oppure:

Oppe Oppe cavaddùzze                                  (Al galoppo cavalluccio)
Ca ma scere a Muntiase                                 (che dobbiamo andare a Monteiasi)
M’ha ‘cattà nu belle ciuccie                           (compreremo un bel ciuccio)
Oppe oppe cavadduzze                                  (Al galoppo cavalluccio)


Intanto tra una filastrocca e l’altra il tempo passava , noi non avevamo ancora capito come andavano a finire ‘u ciucce e a melote, né cosa fosse mai ‘u ntrattiene che la nonna ci aveva dato… Da grandi poi, raccontando le stesse cose a figli e nipoti e vedendo nei loro occhi lo stesso smarrimento, ripensandoci, ci siamo fatti un’idea … forse.