martedì 1 novembre 2016

Diasilla (Dies irae in tarantino)

Novembre è il mese dedicato ai defunti e una delle più belle composizioni a loro dedicata è il Dies irae (il giorno del giudizio), risale al XIII secolo e viene attribuita al religioso francescano Tommaso da Celano. E' una sequenza in lingua latina, musicata da molti musicisti che cantata durante le messe di requiem ha assunto valenza di preghiera.I nostri avi ne conoscevano il significato ma, non sapendo la lingua latina, lo recitavano in dialetto, ed è proprio questa la versione che voglio riportare, comparandola con la versione latina originaria e rispettive traduzioni:

Diasilla
Diasilla diasilla!                                       Diesilla diesilla!
Secul'e ssecula 'nfacìlle!                          secoli e secoli in favilla!

Ahimè! ce ggran delore                           Ahimè! che gran dolore
a ggiudecà le peccatore!                         a giudicare i peccatori!
Penzànne mme vene 'u tremore.          Pensando mi viene il tremore.

Sunarà 'a terribbele trombe                   Suonerà la terribile tromba
pe le sebbùrche de 'u munne,               per i sepolcri del mondo,
chiàmanne tutte a ddà le cunde;           chiamando tutti a darne conto

e risciuscetànne le criatùre                    e resuscitando le creature
dall'andìche sebbulture                          dalle antiche sepolture
pe Giudizzie 'nnand'a Ddomene.          per il giudizio davanti al Signore

Sciàme nnand'o Tribbunale                    Andiamo davanti al Tribunale
addò stè scritt'u bben'e u male,            dove è scritto il bene e il male,
p'essere tutte ggiudecàte.                      per essere tutti giudicati.

Nnand'a Ddie Unneputènte,                   Innanzi a Dio Onnipotente
ca cum'a Ggiudece sarà ppresende,     che come Giudice sarà presente
anem'e ccuèrp'ije m'appresènde.         anima e corpo io mi presento.

Ce agghia dicer'ije miseràbbele            che devo dire io miserabile
a 'u Patrune ca m'addummànne            al Padrone che mi domanda
l'opre ci sò ggiùst'e sso ssecùre?           l'opere se son giuste e son sicure?

O tremenda Majestàte                           O tremenda Maestà,
sarva l'ome, sarva l'ingràte,                   salva l'uomo, salva l'ingrato,
sarv'a mme, fonde de pietate!              salva me fonte di pietà.

Arrecordete, Ggesù mie,                         Ricordati, Gesù mio,
facìste l'om'a ccunde mie,                      Facesti l'uomo a conto mio,
no mme perdere quedda die!                non perdermi quel giorno!

Me cercaste e nno m'acchiàste,            Mi cercasti e non mi trovasti,
sobbr'a Croce m'accattàste,                   sulla Croce mi riscattasti,
me lebbrast'e mme sarvaste                  mi liberasti e mi salvasti

Tribbunale d'espiazzione!                       Tribunale di espiazione
Nand'a Ddije no'nge stè raggiòne         Davanti a Dio non c'è ragione,
no ffavòr'e nno pperdòne.                      non favori e non perdono.

Cumbarìsche cum'a nnu reje                  Comparisco come un reo,
e s'arròss'a faccia meje.                          e arrossisce il mio viso.
Signor, 'agghie pietà de meje!               Signore abbi pietà di me!

Tu 'a Maddalena l'assulvìste,                 Tu la Maddalena la perdonasti,
'u latrone l'esaudiste                               il ladrone l'esaudisti
e ppe mme na spranz'avìste.                 e per me una speranza avesti.

Ije te preje, e nno ssò ddìgne,                Io ti prego e non sono degno,
Da 'u fuèche famme libbere;                  dal fuoco fammi libero;
falle Tu, ca sì Benigne!                             Fallo Tu che sei Benigno!

'Ndrà l'ainièdde nu luèche me 'mbrieste, Tra gli agnelli un posto mi presti
no mme mannàre le sequestre              non mi mandare i sequestri
e mmitteme alla Tua destre.                   e mettimi alla Tua destra.

Alluntanàte le maledìtte.                         allontanate i maledetti,
da quìdde fuèche sèmbre strìnte           da quel fuoco sempre stretti,
chiam'a mme cu le benedìtte.                 chiamami tra i Benedetti.

Sò pintìte e umigliàte                              Son pentito e umiliato
agghie cure de me, 'ngràte;                     abbi cur di me ingrato;
buène luèche me sia date.                       Buon luogo mi sia dato.

Lagremose diasilla!                                   Lacrimosa dies irae!
resciuscetànne da le facìlle                     resuscitando dalle faville

pe ggiudecare l'ome reje                         per giudicare l'uomo colpevole.
Agghie piatàte de meje                            Abbi pietà di me

Ggesù mmie, Ggesù bbuène!                 Gesù mio, Gesù buono!
Rèchie etèrna dona Domene!                 Requiem aeternam dona Domine!
Ammèn.                                                    Amen.


Dies Irae
Dies Irae, dies illa                                 Giorno dell'ira, quel giorno che
solvet saeclum in favilla:                     dissolverà il mondo in cenere
teste David cum Sybilla.                      come annunciato da Davide e Sibilla.

Quantus tremor est futurus,                Quanto terrore ci sarà
Quando judex est venturus,                quando il Giudice verrà
Cuncta stricte discussurus.                 a giudicare severamente ogni cosa.


Tuba, mirum spargens sonum           La mirabile tromba diffonderà il suono
per sepulcra regionum                        tra i sepolcri del mondo
coget omnes ante thronum.                 porterà tutti davanti al trono.

Mors stupebit et natura,                    La Morte e la Natura si stupiranno
cum resurget creatura,                      quando risorgerà ogni creatura
judicanti responsura.                        per rispondere al Giudice.

Liber scriptus proferetur,                  Sarà presentato il libro scritto
in quo totum continetur,                    nel quale è contenuto tutto,
unde mundus judicetur.                     dal quale si giudicherà il mondo.

Judex ergo cum sedebit,                    E quando il giudice si siederà,
quidquid latet, apparebit:                 ogni cosa nascosta sarà svelata, 
nil inultum remanebit.                       niente rimarrà invendicato.
                                                         
Quid sum miser tunc dicturus?        Allora, che potrò dire io, misero,
quem patronum rogaturus,               chi chiamerò a difendermi,
cum vix justus sit securus?               se neanche il giusto potrà dirsi al sicuro?

Rex tremendae majestatis,               Re di tremendo potere,
qui salvandos salvas gratis,            tu che salvi per grazia chi è da salvare,
salva me, fons pietatis.                    salva me, fonte di pietà.

Recordare, Jesu pie,                        Ricorda, o pio Gesù,
quod sum causa tuae viae               che io sono la causa del tuo viaggio;
ne me perdas illa die.                      non lasciare che quel giorno io sia perduto.

Quaerens me, sedisti lassus,           Cercandomi ti sedesti stanco,
redemisti Crucem passus:               mi hai redento conla passione della Croce:
tantus labor non sit cassus.            che tanto sforzo non sia vano!

Juste judex ultionis,                        Giusto giudice di espiazione,
donum fac remissionis                    concedi il dono del perdono
ante diem rationis.                          prima del giorno della resa dei conti.

Ingemisco, tamquam reus,             Gemo come un colpevole,
culpa rubet vultus meus                 per la colpa arrossisce il mio volto;
supplicanti parce, Deus.                risparmia chi ti supplica, o Dio.

Qui Mariam absolvisti,                 Tu che perdonasti Maria di Magdala,
et latronem exaudisti,                    tu che esaudisti il buon ladrone,
mihi quoque spem dedisti.             anche a me hai dato speranza.

Preces meae non sunt dignae,       Le mie preghiere non sono degne;
sed tu bonus fac benigne,              ma Tu, buon Dio, con benignità fa'
ne perenni cremer igne.                 che io non sia arso dal fuoco eterno.

Inter oves locum praesta,              Assicurami un posto nel Tuo gregge,
et ab haedis me sequestra,            e tienimi lontano dai caproni,
statuens in parte dextra.                ponendomi alla tua destra.

Confutatis maledictis,                    Una volta smascherati i malvagi,
flammis acribus addictis,              condannati alle fiamme feroci,
voca me cum benedictis.               chiamami tra i benedetti.

Oro supplex et acclinis,                 Ti prego supplicandoTi in ginocchio

cor contritum quasi cinis:             col cuore contrito ridotto quasi in cenere
gere curam mei finis.                     prenditi cura del mio destino

Lacrimosa dies illa,                       Giorno di lacrime, quello,
qua resurget ex favilla                   in cui  risorgerà dalla cenere 

Judicandus homo reus.                  Il peccatore sarà giudicato.
huic ergo parce, Deus:                  abbi pietà di lui, o Dio:

Pie Jesu Domine,                           Pio Signore Gesù,
dona eis requiem. Amen.               dona a loro la pace. Amen.










mercoledì 5 ottobre 2016

Quànne pròdene le mane...

 Il prurito alle mani,  non essendo molto frequente, è stato da sempre spiegato con superstiziosa premonizione di eventi positivi e negativi: < o solde o mazzate! >
 

Un proverbio recita: "Cigghie a' lle mane: o turnise o mulegnane" ( Prurito alle mani: o soldi o bastonate.)

A tal proposito occorre stabilire che: il prurito al palmo delle mani, riguarda i soldi;
il prurito sul dorso delle mani , riguarda le liti.
Una volta identificato il genere di prurito, bisognerà capire la natura, positiva o negativa, dell'evento: tutto ciò che riguarda la mano destra sarà positivo:
se prude il palmo: entreranno soldi -  se prude il dorso: saremo noi a bastonare, vinceremo una lite,  
Per la mano sinistra, invece, le cose si mettono male:
se prude il palmo: usciranno soldi, sosterremo una spesa - se prude il dorso: riceveremo bastonate, perderemo una lite.
Ma attenzione!
La reazione spontanea al prurito è grattarsi ma... non sempre grattarsi porta bene, in questo caso, non bisogna farlo assolutamente perchè questo gesto spontaneo annullerebbe o cambierebbe gli effetti del presagio, così che:
grattando la mano destra: non riceveremo più soldi e non daremo più bastonate;
grattando la mano sinistra: confermeremo l'uscita di soldi e  prenderemo le bastonate.
 

Lo so è un po' complicato ma, finalmente, ora lo sapete: destra o sinistra, palmo o dorso, se vi prudono le mani NON GRATTATEVI! - perchè altrimenti, farete qualcosa di sbagliato e qualcuno potrà dirvi: < ... ma cè te stònne prodene le mane?>

venerdì 30 settembre 2016

L'arie jè 'a sove, ma le turnìse so' de Troile!

Il nostro patrimonio lessicale ha una frase per ogni occasione. Espressioni che vanno man mano perdendosi. Più il tempo passa più l'oblio incombe.
Oggi mi è capitato di incontrare persone che "s'a mantenevene" ... "s'a profumavene" ... insomma, si davano delle arie. 

Di una in particolare osservavo l'ostentata boriosità e, conoscendone stirpe, discendenza e situazione reale, con ironica compassione  ho pensato: 
               " l'arie jè 'a sove, ma le turnìse so' de Troile!"
Un antico modo di dire che ricorda anche una tra le più ricche famiglie nobili della Taranto ottocentesca: i Troilo, il cui ingente patrimonio era costituito da palazzi, ville, masserie e terreni, il cui immenso valore ha dato vita a questo modo di dire in cui la ricchezza, nei suoi diversi aspetti, è l'agognata meta che molti possono vantare ma pochissimi riescono ad eguagliare.
Questo modo di dire viene usato per indicare le persone che con spavalderia ostentano ricchezze che non hanno.
Di fronte a questo tipo di atteggiamenti, proprio chi conosce bene la situazione, non può fare a meno di pronunciare questo detto, ricordando che  la ricchezza, reale o ostentata, non è tutto nella vita e bisogna sempre ricordare che: "pure a reggìne avì 'bbisogne d'a vicìne"!!!

mercoledì 29 giugno 2016

Pietr'aùre

Oggi è San Pietro e Paolo e per questa ricorrenza vi voglio parlare di Palazzo Galeota.


I palazzi nobiliari del borgo antico custodiscono tanta storia ma anche tante storie, fatti veri o inventati comunque degni di essere raccontati. 

Vi chiederete cosa ha a che fare questo palazzo nobiliare con San Pietro, col Santo niente,  col "Pietro"  qualcosa c'è...

La storia ci dice che Palazzo Galeota,  prende il nome degli ultimi proprietari ma  fu costruito nel 1728 per volontà del canonico Don Vincenzo Cosa, uomo scaltro che mediante la gestione dei lasciti testamentari al capitolo metropolitano, e la considerevole attività creditizia esercitata, seppe accumulare le somme necessarie per esaudire il suo desiderio di annoverare la sua famiglia tra quelle della nobiltà tarantina.
 
A suggellare il prestigio raggiunto col potere economico,il canonico si prodigò a combinare il matrimonio del fratello don Domenico Cosa, con la nobildonna napoletana donna Rosa de Cordova.
Alla morte di Don Vincenzo e del fratello Domenico, il palazzo passò alla famiglia Calò  e in seguito alla famiglia Galeota, da cui ha preso il nome. 

La leggenda vuole che il fantasma di un monaco si aggiri per le stanze del palazzo, alcuni pensano si tratti presumibilmente di Don Vincenzo, alri invece dicono si tratti di "l'aùre de case", ossia del monacello, il folletto della casa.
A questo " folletto" i tarantini hanno dato una storia... e un nome ... 


 Pietr'aùre

... a Palazzo Galeota viveva una giovane coppia, lei una bella ragazza, lui un bell'uomo, onesto, lavoratore che faceva il fornaio.
Vicino al Palazzo viveva Pietro, un bel ragazzo che si era invaghito della moglie del fornaio e non esitava a corteggiarla. Il corteggiamento fu così serrato, che la giovane sposina cedette e nottetempo, quando il marito era dedito al suo lavoro di fornaio, aprì la porta di casa al focoso Pietro. I loro incontri erano tanto appassionati da lasciare lividi e rossori sul corpo della giovane.
Quando il marito, tornato a casa, chiedeva alla moglie cosa fossero quei segni, lei rispondeva "ha state l'aùre!"
La gente che vedeva e sapeva, ascoltando una simile risposta, commentava: " Si, Pietr'aùre!"  


Da questa storia è nato il detto:
" Pizzeche d'aùre
  pigghiete paure,
 pizzeche de zite
                                                 pigghie marite "

  

domenica 19 giugno 2016

" E và bbène " ...disse Donna Lena

Un modo di dire recita:
" e vabbène disse donna Lena, quanne vedì 'a figghie, 'a serva e 'a jatta prène " 
un detto che sottolinea la necessità, a volte, di arrendersi all'evidenza e accettare le cose per quelle che sono.
Come fece Donna Lena che, aveva una figlia in età da marito e, in attesa che arrivasse un pretendente alla sua altezza, preoccupata per il suo onore, la faceva uscire sempre in compagnia della donna che aveva a servizio.
Un giorno però, entrando all'improvviso nella stanza della figlia, notò che "aveva messo sù pancia",



allora infuriata andò nella stanza della donna di servizio per chiedere spiegazioni e si accorse che anche lei aveva "il pancione".
Sconvolta, Donna Lena cominciò ad inveire contro la figlia e la serva quando,
la gatta di casa le si avvicinò miagolando, cercando una cuccia per partorire....



A quel punto Donna Lena si ammutolì e, rassegnata, si lasciò cadere su una sedia esclamando: " e và bbène!"...
















venerdì 10 giugno 2016

Donna Pernice.

Berenice era una nobildonna di origini napoletane, sposata con Cataldo Simonetti, piccolo borghese tarantino titolare di una gioielleria. Vivevano agiatamente col loro figlioletto Domenico, detto Mimì - soprannominato "brasciolette" che non privavano di vizi e sfizi, ma dopo una rapina che svaligiò il loro negozio caddero in miseria e la loro vita cambiò drasticamente.
Donna Berenice non si perse d’animo e avendo studiato canto, andò a cantare in chiesa accompagnata al pianoforte dal figlio Mimì che aveva preso lezioni di pianoforte.
I nobili parenti napoletani l'aiutavano come potevano, inviando anche i loro vestiti dismessi, ma lei, Donna Pernice, com’era chiamata dai tarantini che per inflessione dialettale storpiavano il suo nome, li indossava senza soggezione, benchè fuori moda e fuori luogo, e a chi la guardava con disprezzo rispondeva: 

< abbete mije pumpuse, quidde ca me donne me mette suse.>
 

Una donna rimasta impressa ai tarantini che ancora oggi vedendo una persona vestita in modo stravagante usano dire: 
"S’ha vestute come donna Pernice!" 

A suo marito invece avevano dedicato una cantilena:
"Don Catavete Simonette,
pe mugghiere 'na catalette,
pe figghie na brasciolette!" 
Donna Berenice col marito Cataldo Simonetti (a destra) e il figlio Domenico (a sinistra)